Un paziente in attesa della visita al Naga di Milano (foto di Marco Capponi)

«Ho un pacemaker, soffro di attacchi di panico e ho problemi respiratori». Da 40 anni Washington vive in Italia. È nato in Uruguay e non ha il permesso di soggiorno. Per lo Stato italiano non è mai esistito. Come lui, circa 700 mila persone nelle nostre città passano inosservate. Non hanno una casa, non hanno i documenti per trovare un lavoro regolare. Non hanno un’assistenza medica adeguata: anche se sono malati cronici devono comunque presentarsi, per ogni esigenza, al pronto soccorso, ma gli operatori sanitari li spediscono alle associazioni di volontariato. Omar, nome di fantasia perché vuole rimanere anonimo, è andato in uno degli ospedali di Milano per una ferita al polso. Dopo un esame parziale, lo hanno mandato via. Gli hanno consegnato un referto di rilascio: sopra c’era l’indirizzo del Naga.

 

È un mio diritto

In Italia anche chi non ha il permesso di soggiorno ha diritto a essere visitato e preso in carico dagli ospedali. La legge Turco-Napolitano del 1998 (inserita poi nel Testo Unico sull’immigrazione) stabilisce che agli stranieri irregolari debbano essere garantite «le cure urgenti, essenziali e continuative». Una definizione generica che permette di far rientrare in questo calderone praticamente qualsiasi malattia, dal raffreddore alla polmonite. In teoria, il paziente non paga nulla: gli viene assegnato un codice fiscale fittizio, chiamato Stp, per registrare la prestazione medica e poi viene visitato gratuitamente. Il codice dura sei mesi e può essere rinnovato all’infinito.

Il problema sono i rimborsi che lo Stato dovrebbe garantire agli ospedali per le cure fornite agli stranieri irregolari. I ritardi e le difficoltà amministrative ci sono sempre state. Ma da quando i risarcimenti sono di competenza regionale e non più del ministero degli Interni, sempre più ospedali delegano le cure alle associazioni volontarie.

Washington (foto di Marco Capponi)

Quando Washington è arrivato in Italia aveva 26 anni. Era il 1979. Dall’Uruguay ha preso un aereo ed è atterrato a Fiumicino. Diciotto ore di viaggio, quasi 11 mila chilometri percorsi. Scappava dalla dittatura militare imposta da Aparicio Méndez. Erano gli anni delle guerriglie urbane e degli arresti politici. «La situazione era molto difficile. Dovevo per forza andare via», ricorda . Ha vissuto a Roma e a Milano. Ha trovato da solo dove dormire, dove lavorare. Ora sta alla fondazione “Fratelli di San Francesco”, una delle più attive nel capoluogo lombardo: si occupa di distribuire i pasti e in cambio ha un tetto sopra la testa.

«Prima ero come Hulk. Avevo un’ottima salute. Poi, le difficili condizioni di vita e la vecchiaia mi hanno indebolito». Washington adesso ha 68 anni. Come la maggior parte dei migranti irregolari, ha dovuto procurarsi autonomamente quelle cure che la nostra Costituzione garantisce a tutti. Ci pensa un po’ su, sorride e dice: «Mi pare si tratti dell’articolo 32».

 

Sempre in fila al Pronto Soccorso

Anche se Washington non ha la tessera sanitaria, ha diritto a essere visitato. L’importante è che vada al pronto soccorso. A differenza dei richiedenti asilo, i migranti irregolari non hanno un medico di base a cui fare riferimento e possono accedere agli ospedali solo tramite il pronto soccorso. Che si tratti di una bronchite o di un mal di pancia, la procedura è sempre la stessa: accettazione, Stp, visita aspettando il primo medico disponibile. Questo sistema, però, è efficace solo per le pratiche ambulatoriali di emergenza, quando ci si rompe un braccio ad esempio. Non per i malati cronici o per chi ha bisogno del medico di base.

«Se hai la gastrite? Vai ogni volta al pronto soccorso?», chiede Washington. Soffrendo di attacchi di panico, avendo problemi respiratori, deve essere seguito sempre dalla stessa persona. Deve fare esami specialistici appropriati. In pronto soccorso è quasi impossibile: le file sono infinite e i mediatori culturali, che per legge non sono obbligatori, non ci sono. In queste condizioni per molti è difficile comunicare i sintomi. Quando Washington è arrivato a Milano, conosceva poco la lingua e non sapeva come muoversi. È venuto in Italia per seguire degli amici: «Giocavano a bocce con mio padre. Quando è partito il primo, lo abbiamo seguito tutti».

La clinica mobile di Emergency in via Odazio (foto di Marco Capponi)

Chi mi cura, davvero

«Ho iniziato a cercare associazioni di volontariato che mi aiutassero», dice. Erano gli anni 2000, la questione migratoria sembrava ancora un problema marginale. In quel periodo esisteva principalmente il Naga. «Quando ci sono andato la prima volta era ancora al vecchio indirizzo, in viale Bligny». Ora con i suoi 400 volontari è in via Zamenhof: da oltre 30 anni fornisce assistenza sanitaria e legale a chi vive qui, ma in realtà dovrebbe andarsene.  Anche se è la più radicata sul territorio, oggi è soltanto una delle tante onlus che forniscono agli irregolari quelle cure continue di cui hanno bisogno. Alcune hanno postazioni fisse, altre sono cliniche mobili che vanno in giro per la città. A visitare i pazienti sono per lo più dottori in pensione, che si reinventano medici di base.

«Sono peggiorato anno dopo anno. Prima il cuore, poi i polmoni», spiega Washington.  Si è ammalato con il tempo, per le sue condizioni di vita. Ha vissuto un po’ dove capitava. Alberghi, pensioni, anche per strada se necessario. Mangiava male e in modo disordinato. «Ho avuto delle giornate veramente difficili. Ora per fortuna grazie all’associazione San Francesco ho una casa». Prima di diventare volontario alla mensa dell’associazione, Washington ha svolto lavori di cui non va fiero. «Non mi va di parlarne. Quando non sai come arrivare alla fine del mese capita a molti, purtroppo, di deviare dalla retta via».

La “farmacia” del Naga (foto di Marco Capponi)

“Ho la bronchite, non la tubercolosi”

Come lui, molti pazienti soffrono di patologie comuni: mal di schiena, bronchite, raffreddore. Numeri precisi non ce ne sono, ma secondo le dichiarazioni dell’assessore lombardo alla Sicurezza Riccardo De Corato gli irregolari a Milano sono più di 50 mila. Alcuni sono appena arrivati, altri sono in città da anni. Abitano in stabili fatiscenti o in mezzo alla strada. Lavorano in nero e mangiano quello che trovano: panini, cibi precotti, patatine fritte. Alimenti che costano poco e riempiono lo stomaco.

Il dottor Paolo Beck (foto di Marco Capponi)

«Vengono da noi con malattie che se curate volta per volta sono innocue, ma se non c’è nessuno che se ne occupa diventano malesseri molto più seri per cui bisogna davvero andare in pronto soccorso», spiega Paolo Beck, uno dei 60 dottori del Naga. Prima lavorava al Policlinico di Milano come endocrinologo, poi, da quando è in pensione, è diventato un medico volontario. Nella maggior parte dei casi lo stereotipo dello straniero che arriva in Italia e porta con sé la tubercolosi è irrealistico. Nel 2017 in via Zamenhof su più di 2 mila pazienti visitati solo tre avevano contratto la malattia. «Quando riscontriamo alcuni sintomi, dobbiamo mandare le persone in altri ambulatori per ulteriori controlli. Molto spesso però è soltanto un falso allarme».

La prima volta Washington è stato al Naga per la sua compagna, Teresita. «Cercavo dei farmaci. Alcuni amici mi hanno detto di andare in viale Bligny perché avrei trovato sicuramente qualcuno disposto ad aiutarmi». Ha bussato alla porta, si è seduto nella sala d’aspetto e ha atteso che un volontario gli chiedesse se era lì per l’assistenza sanitaria o legale. Con il passare degli anni, anche lui è diventato un paziente. Sta ancora con Teresita, ma non vuole sposarsi («Va a finire che mi chiede pure il mantenimento»). In Uruguay abitano le sue tre figlie, avute con un’altra donna. Non vede l’ora di rivederle: «Adesso tornare a casa è impossibile».

“Qui non possiamo curarti, vai dai volontari”

Gli ambulatori sono diventati famosi tramite passaparola. Sulla pagina Facebook del Naga ci sono 15 mila mi piace. Chi è andato in via Zamenhof scrive cosa ne pensa e risponde alle domande di chi non sa dove poter controllare il proprio stato di salute. Abdul commenta: «Questa organizzazione è davvero molto utile per i rifugiati stranieri».

Chi soggiorna in Italia illegalmente non sa, però, di avere diritto ad accedere anche alle strutture pubbliche. Non lo sa perché sul tema viene fatta poca informazione e perché molto spesso sono gli stessi ospedali a indirizzare alle associazioni di volontari (come si può vedere dal verbale qui sotto). Le difficoltà che gli stranieri incontrano nell’accedere all’assistenza sanitaria non dipendono, quindi, soltanto da un problema organizzativo legato al pronto soccorso. Ma anche da un malcostume diffuso. «Sa quante volte è capitato che li spedissero da noi scrivendo sull’impegnativa “Vai al Naga”?», incalza il dottor Beck. È una prassi comune. È accaduto a Omar che si era presentato in pronto soccorso la sera lamentando dolori al polso. Accade ogni giorno a tanti stranieri irregolari.

Arrivano al pronto soccorso senza tessera sanitaria, la sala d’attesa è strapiena. Provengono dal Marocco, dal Perù, dall’Africa sub-sahariana. All’accettazione, il personale non capisce bene che cosa stiano dicendo. C’è la fila e le persone che attendono il loro turno sembrano piuttosto infastidite. Gli operatori sanitari non ricordano o non sanno di poter chiamare un medico per richiedere che venga rilasciato un Stp. I sintomi descritti dai pazienti in maniera frettolosa non sembrano gravi. Talvolta li visita un dottore. In qualsiasi caso, dopo vengono mandati in via Zamenhof o in via dei Transiti: da chiunque abbia il tempo di prendersene cura.

Il dottor Livio Colombo (foto di Marco Capponi)

«Diciamo che è un’ignoranza volutamente ricercata. Gli ospedali hanno paura di non essere rimborsati, come prevede la legge, per le prestazioni erogate. Perciò li mandano dai volontari», critica il dottor Livio Colombo, medico dell’ospedale San Paolo. La situazione è diventata ancora più confusa e incerta da quando il governo Gentiloni nel 2017 ha trasferito dagli Interni alla Salute, quindi alle Regioni, l’onere di provvedere ai costi sanitari degli stranieri irregolari. Nel 2018 il Naga ha speso quasi 83 mila euro per farmaci, visite ed esami.

«Ora non si capisce più nulla e noi ci affatichiamo sempre di più», dice Colombo. Prima era al Naga, ora lavora presso l’ambulatorio del San Paolo: il primo centro sanitario pubblico dedicato esclusivamente ai migranti irregolari. È lui ad aver seguito le cure di Washington: «Livio non è solo un dottore, è un’istituzione». Quando ne parla Washington sorride. Sa di dovergli molto. Ogni venerdì va in via Antonio di Rudinì. «Blocco A, piano meno due», precisa.

 

“L’Italia ormai è casa nostra”

«Washington è uno dei pazienti a cui sono più affezionato», racconta Colombo. Da quando l’ambulatorio al San Paolo ha aperto nel 2007, ogni settimana ci sono una cinquantina di persone. La maggior parte arrivano dal Naga. È un circolo vizioso. «Le persone vanno al pronto soccorso, poi vengono mandate dai medici volontari e alla fine arrivano qui per avere visite specialistiche e farmaci gratuiti».

Le varie associazioni da sole, infatti, non possono dare un’assistenza a 360 gradi. In primis, non hanno i macchinari adeguati. In più, la maggior parte degli ambulatori non può rilasciare il codice Stp e la ricetta medica, fondamentali per accedere gratuitamente alle cure. «Molte strutture hanno deciso di non richiedere alla Regione il permesso per poter consegnare questi documenti. Vogliono spronare la sanità pubblica a occuparsi degli stranieri. Oggi solo Opera San Francesco, Emergency e pochissimi altri possono dare l’Stp», continua Colombo. Il Naga è tra le associazioni che hanno rifiutato di sottoscrivere l’intesa con la giunta lombarda. «L’obiettivo è fare in modo che gli ambulatori dedicati a stranieri senza permesso di soggiorno si diffondano in ogni ospedale. In questo modo liberiamo un po’ il pronto soccorso e riusciamo a dare un’assistenza adeguata a chi ha tradizioni diverse dalle nostre», dice Colombo.

Una visita all’ambulatorio per migranti dell’ospedale San Paolo (foto di Marco Capponi)

Per adesso solo il Niguarda ha seguito l’esempio del San Paolo. Anche in piazza dell’Ospedale Maggiore ci sono mediatori culturali e medici specializzati. «Il nostro compito è fare da contenitori. Creare una terza cultura che coniughi la nostra e la loro. Dobbiamo farli sentire a casa», dice Zahia Bounab, mediatrice del San Paolo. Mentre parla intreccia le mani.

Washington ora dice di essere a casa. «Che differenza c’è tra me e un italiano?», si chiede. Lui sa che non dovrebbe stare qui. Ma ormai ha vissuto più tempo in Italia che in Sudamerica. Ha una convinzione: «So di essere fuorilegge. In una democrazia, però, penso che il diritto alla salute debba essere garantito a tutti».