«Non chiediamo di essere capiti. Ci vuole una grande forza conoscitiva per poterlo dire». Per Angelo Guglielmi, critico, giornalista e autore dei più popolari programmi radiotelevisivi italiani (da “Mi manda Raitre” a “Blob” a “Chi l’ha visto?”) era questo il senso della poetica di Edoardo Sanguineti, con lui protagonista del movimento di Neoavanguardia letteraria Gruppo 63, poeta, scrittore e drammaturgo scomparso dieci anni fa il 18 maggio 2010.

La vita – Nato a Genova e “rinato” a Torino, dove visse gran parte della vita, Sanguineti assorbì dagli ambienti culturali di questa città molte delle idee e suggestioni che trasferì nelle sue opere. Pittori, filologi e scrittori d’avanguardia gravitavano attorno alla sua cerchia di amici, così come filosofi ed esperti di psicoanalisi. Da ognuno di loro il poeta genovese traeva ispirazioni per scrivere e codificare un linguaggio innovativo, dirompente. Quello del “Laborintus”, la sua opera più significativa, iniziata nel 1951 e pubblicata nel 1956, lo stesso anno della laurea che Sanguineti conseguì discutendo una tesi su Dante. L’opera, secondo il critico Fausto Curi, irruppe nella poesia italiana «come un meteorite»: combinando simboli della psicoanalisi di Jung a immagini surrealiste, il “Laborintus” aveva nel plurilinguismo e nello sperimentalismo la sua doppia matrice.

Il Gruppo 63 – Furono questi due elementi a orientare la ricerca letteraria del Gruppo 63, che avvicinò Sanguineti a intellettuali come Umberto Eco, Elio Pagliarini e Achille Bonito Oliva. Fine ultimo del movimento era la ricerca di nuovi codici espressivi per raccontare la realtà, nell’arte e nella poesia, rinunciando agli schemi tradizionali. «Nelle riunioni del gruppo lui (Sanguineti, ndr) era il più eccezionale, il più colto – racconta Guglielmi – la sua retorica era alta, ma concreta». Amico e collega del poeta, Guglielmi vede in lui «la vera rottura della poesia italiana con la tradizione, iniziata con Dante e Petrarca e giunta fino a Ungaretti». A un linguaggio quotidiano ormai desueto, Sanguineti preferì quello «che non descrive, ma esprime l’angoscia, il dolore, la nevrosi della realtà». Il ‘900 aveva interrotto la continuità di modelli e riferimenti di cui la poesia si era nutrita fino a quel momento: la letteratura non era più chiamata «a rappresentare, ma a esprimere una realtà che aveva perso i suoi connotati di sempre e che, perciò, era impazzita», spiega Guglielmi. Sanguineti trasferì questo caos sulla pagina, raccontando la metamorfosi del suo tempo «con un linguaggio rotto, antilirico, quasi incomprensibile, come lo è la nevrosi per chi non la prova».

La rottura con la tradizione – Come Dante, Sanguineti ha scritto poesie «ruvide, difficili da comprendere se non facendo riferimento al suo tempo», continua Guglielmi: «Quando ero assessore a Bologna gli chiesi di raccontarmi cos’era per lui il ‘900. Mi disse che era stato tre cose: l’avanguardia, il rifiuto dell’ideologia e la rottura con le convenzioni. Gli proposi di realizzare uno spettacolo che proponesse una riflessione su ognuno di questi concetti. Il risultato fu una serata con un grande pubblico che, sentendolo parlare, capiva di aver vissuto una vita di cui non si era mai reso conto e un’angoscia che non era stato capace di riconoscere».

La lezione poetica – Fu questo, per Guglielmi, il grande merito dell’amico Sanguineti. Aver reso leggibile la crisi di un secolo che si stava trasformando, senza interpretarla, ma dandole corpo nel testo, con versi spezzati, neologismi e costruzioni lessicali impervie. «La poesia moderna è questo – conclude il critico – non deve spiegare, ma dire l’essenza delle cose. I tradizionalisti, che scrivono romanzetti autobiografici, non hanno capito niente della letteratura italiana».