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Donald John Trump è nato il 14 Giugno del 1946 a New York

Lo hanno definito incompetente, sessista, omofobo, ingestibile. È lontano anni luce dallo stile presidenziale. Ma da sempre ha avuto un’incrollabile fiducia in se stesso. E queste caratteristiche lo hanno portato al trionfo.

Per tutta la sua vita Donald John Trump, il 45° Presidente degli Stati Uniti d’America, ha seguito la filosofia del pensiero positivo insegnatagli dal reverendo Norman Vincent Peale. Sa che basta un ingrediente per aver successo: un’autostima pressoché illimitata. Secondo la sua teoria, quindi, non c’era nessun ostacolo alla sua vittoria alle elezioni americane del 2016. E ora chi dice che l’autostima non funziona?

Diventare presidente non era certo il suo sogno da bambino e per molto tempo non lo è stato nemmeno da adulto. Figlio di un’immigrata scozzese e di un imprenditore di origini tedesche, Donald si distingue per i suoi affari nel mercato immobiliare. Dopo la laurea in economia all’università della Pennsylvania, una delle Ivy League, inizia a lavorare accanto al padre Fred che gli lascia il comando della sua compagnia, la Trump Management. Insieme progettano e vendono proprietà alla piccola e media borghesia newyorchese nel Queens e a Brooklyn, poi Trump figlio va oltre. Atlantic City, Dubai, Mosca, Baku. Ma prima si butta su Manhattan. Da ragazzo ci va spesso di nascosto dai genitori. Loro lo considerano un luogo di perdizione e, una volta scoperte le scappatelle, puniscono il giovane mandandolo all‘accademia militare.

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Ivana Marie Zelníková

Negli anni ’80 il suo impero commerciale e il suo potere crescono a dismisura. Nel 1987 ottiene delle agevolazioni fiscali dallo stato e dalla città di New York per la messa a nuovo dell’Hotel Commodore, il futuro Grand Hyatt. Grazie al suo avvocato, amico e consigliere personale Roy Cohn, riesce spesso a zittire i suoi avversari così come i suoi partner commerciali. Ai primi riserva attacchi e ingenti donazioni. I secondi, invece, sono costretti a firmare dei contratti che prevedono costosissimi viaggi in tribunale qualora forniscano alla stampa informazioni di natura riservata sul suo conto. É così anche per la prima moglie Ivana e per il suo silenzio, ottenuto grazie alla minaccia di revoca di un assegno annuale di 650.000 dollari.

Donald Trump ha pensato di scendere in politica per via dei media, o meglio, dell’attenzione che questi gli avrebbero riservato. Il magnate li ha attaccati con violenza durante la campagna elettorale, spesso attraverso il suo amato profilo Twitter. Tuttavia sa quanto la stampa si nutra di storie di sesso e soldi e durante tutta la sua vita si diverte a fornirne in abbondanza, tant’è che in un solo anno compare sulla copertina dei giornali per ben quaranta volte. Più si parla e si scrive di lui, più il suo business prolifera, i suoi debitori tornano a dargli fiducia e prestargli soldi dopo l’ennesima bancarotta, gli imprenditori a chiedergli di utilizzare il suo nome per lanciare nuovi prodotti sul mercato mondiale. Nulla, però, aiuta il successo di Trump più delle indiscrezioni su una sua eventuale candidatura alla presidenza degli Stati Uniti.

Il tycoon non ha un’idea politica ben precisa. Sostiene di votare repubblicano ma si dice a favore di un’estensione della copertura sanitaria a livello nazionale. Finanzia regolarmente i candidati del partito dell’elefante ma aiuta anche le campagne elettorali dei democratici. Sa che non bisogna mai disdegnare nessuno in vista di possibili future alleanze.

Il do ut des è una filosofia dello stesso Trump padre che proprio grazie a questo sistema e ad un prestito iniziale di un milione di dollari, da lui definito “piccolo”, riesce a far emergere il figlio. The Donald continua a tessere legami senza preoccuparsi troppo della loro natura. Non a caso, negli anni Novanta la sua cerchia include esponenti della criminalità organizzata italo americana quali “Fat” Tony Salerno della famiglia Genovese e “Big” Paul Castellano dei Gambino, così come Anar Mammadov, genero del sovrano dell’Azerbaijan noto al mondo intero per essere uno dei dittatori meno rispettosi dei diritti umani.

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Kellyane Conway è una dei responsabili della sua campagna elettorale di Trump

Tra i partner di Trump ci sono anche alcune donne. La stampa lo accusa di averne una bassissima considerazione: è lui stesso a sostenere, in un video diventato virale, di potersi permettere di afferrarle per i genitali senza neanche conoscerle senza che ciò comporti problemi legali. Eppure The Donald non ha problemi ad affidare loro incarichi importanti. La sua prima moglie Ivana è stata vicepresidente del Commodore, della Trump Tower, dell’Hotel Plaza e di uno dei suoi casinò ad Atlantic City. La terza, Melania, solitamente lontana dai riflettori, è uscita dalla sua vita di moglie e madre per prendere parte ai vari convegni. La figlia Ivanka ha un ruolo chiave nella Trump Ocean Club International Hotel &Tower a Panama, Kellyane Conway è stata il capo della sua campagna elettorale ed è a Judy Shelton che Trump si rivolge per questioni di carattere economico.

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Mike Tyson

Con le minoranze etniche e gli afroamericani in particolare, invece, The Donald non vuole avere niente a che fare. Quando è a capo del Trump Management, lui e il padre finiscono nel mirino della New York Human Rights Commission per ben due volte. La prima per aver fatto lavorare alcuni immigrati polacchi in nero. La seconda per aver favorito la segregazione razziale violando il Fair Housing Act. Secondo l’accusa, gli agenti immobiliari alle dipendenze dei Trump devono dire alle persone di colore che non è rimasto nessun appartamento libero nei palazzi abitati prevalentemente dai bianchi, indipendentemente dal fatto che ciò corrisponda o meno alla verità. Padre e figlio smentiscono di aver mai seguito questa politica, ma Donald non permette mai ad una concorrente nera di partecipare ai suoi amati concorsi di bellezza e continua coi commenti razzisti. Fa un’eccezione solo con il pugile Mike Tyson, una delle poche star di Hollywood ad aver ufficializzato il suo endorsement per lui. Nel 1988 Trump si assicura che l’incontro tra il peso massimo e Spinks sia organizzato al suo Plaza, poi difende il campione quando viene condannato per stupro. Qualche anno più tardi nel suo ufficio al numero 721 di Fifth Avenue compare una cintura da campione della World Boxing Association: «Un regalo».

Trump comincia a parlare seriamente di politica nel 1987. Michael Dunbar, un attivista repubblicano di Portsmouth, lo invita a parlare al Rotary Club del New Hampshire. Il partito è alla ricerca di una candidato e Donald può fare al caso loro. Il tycoon accetta ma chiarisce di non avere nessuna intenzione di candidarsi come presidente. Ribadisce la sua posizione anche durante lo show di Oprah Winfrey qualche mese più tardi. Si vocifera poi che possa prendere parte alle elezioni nel 1989 con il sostegno del Reform Party e nel 2000, quando nel suo libro L’America che meritiamo scrive di stare seriamente considerando la sua candidatura. Lascia perdere in entrambi i casi.

Quando decide di scendere in campo nel 2014 nessuno lo prende sul serio. Molti ritengono sia del tutto impreparato, altri pensano non sia addirittura degno di ricoprire un ruolo tanto importante. Tutti i presidenti della storia americana sono passati per le stanze della politica. Con l’unica eccezione di Dwight Eisenhower che era stato proclamato eroe di guerra dopo aver diretto con successo lo sbarco in Normandia. The Donald invece non è altro che un miliardario interessato ai soldi, alle donne e ai riflettori. Eppure quel ragazzo del Queens ha passato una vita a negoziare con le persone, a intrattenerle con le sue battute, ad ammaliarle col suo carisma ed è pronto ad affrontare la più grande delle sfide. Lo dimostrano gli indici di ascolto di The Apprentice, il reality show che lo vede giudice di futuri businessman, il successo dei suoi libri, il tutto esaurito della sua linea di vestiti e profumi, la massa di persone che va ad ascoltarlo nei suoi rallies in giro per gli Stati Uniti.

5440390625_feab8a9520_bTrump non scherza. Nel 2015 è ufficialmente uno dei candidati del partito repubblicano. Durante le primarie non si fida di niente e di nessuno, solo del proprio istinto. Agisce d’impulso, parla a braccio senza mai usare il gobbo. Quando le cose si mettono male, dà la colpa ai suoi collaboratori. Kranish e Fisher, autori di Donald Revealed, scrivono che, a distanza di anni, alcuni dei suoi fallimenti diventano colpa di tre executives morti in un incidente aereo. Quando qualcuno lo attacca replica raddoppiando la dose, seguendo la tattica del suo avvocato Roy Cohn. Non chiede mai scusa. Non ai messicani che definisce “stupratori”, non al giornalista disabile che prende in giro durante un suo convegno, non a tutti coloro che offende nel corso della sua campagna elettorale. Gli basta dire che Jeb Bush ha poca energia per metterlo fuori gioco. Con Marco Rubio, la promessa del partito repubblicano che non riesce a parlare a lungo senza bere, ricorre a un’imitazione: si presenta sul palco con una bottiglietta d’acqua e ne prende un sorso prima di buttarla facendo esplodere il pubblico in una fragorosa risata. Può batterlo Ted Cruz, che lo sconfigge nelle primarie in Iowa, ma il sostegno dei suoi elettori non è minimamente comparabile a quello di Trump e alla fine anche lui si fa da parte.

Il magnate invece non perde mai consensi. Non importa che sia continuamente smentito o che cada in contraddizione. Le sue gaffe, i suoi modi esagerati, le critiche sempre più aspre nei confronti dell’establishment gli valgono sempre più voti. Sulla scia dell’emailgate riesce a guadagnare punti su Hillary Clinton, la donna che lui stesso ha aiutato a diventare senatrice dello stato di New York, la moglie di uno dei pochi presidenti che ha stimato.«Let us make America great again», esclama. E la folla è tutta per lui. Anche nei seggi elettorali, persino degli stati (North Carolina, Florida…) che venivano accreditati a Clinton. L’autostima ha funzionato, E ora “The Donald” guarderà il mondo dalle finestre dello Studio Ovale.