«Pensiamo che la schiavitù sia stata abolita nel secolo scorso, che faccia parte del passato. Non è così». Kailash Satyarthi, Premio Nobel per la Pace nel 2014, non usa mezzi termini. Invitato dalla Onlus Mani Tese alla Statale di Milano per parlare della schiavitù moderna, ribadisce che c’è eccome: ne sono vittima quasi 100 milioni di bambini. E ci riguarda più da vicino di quanto possiamo pensare. Lo dimostrano le tante prostitute ancora minorenni costrette a vendersi sulle strade delle nostre città. Ma anche la maglietta economica che indossiamo e che potrebbe essere stata prodotta in stabilimenti tessili che si servono della manodopera infantile.

La schiavitù moderna assume diverse forme: dal lavoro minorile alla prostituzione forzata fino al traffico di esseri umani, che esiste ancora in alcune regioni del mondo e soprattutto negli scenari di guerra. Satyarthi, dopo una carriera da ingegnere e professore universitario, ha dedicato la sua vita a combattere la piaga dello sfruttamento dei minori nel suo Paese, l’India. La sua battaglia ha salvato milioni di bambini da condizioni lavorative tremende e due anni fa gli è valsa il premio Nobel per la Pace, ricevuto insieme a Malala Yousafzai. Ma Satyarthi, da allora, non si è fermato. Ad agosto ha annunciato una nuova iniziativa, questa volta su scala globale: “Hundred million for a hundred million”, “Cento milioni per cento milioni”. L’intento è quello di dare una voce a chi non ce l’ha. «I giovani più avvantaggiati, come voi – ha detto il premio Nobel rivolgendosi alla platea di studenti dell’Università – devono farsi avanti, offrirsi volontari come portavoce di quei 100 milioni di bambini che sono tagliati fuori da tutte le opportunità».

Il premio Nobel racconta storie toccanti, forti. Come quella della 15enne colombiana vittima di stupro e già madre di un bimbo di due mesi che gli ha detto «Per me è ormai è tardi per studiare». O quella del bambino soldato, costretto a uccidere i suoi familiari e ancora devastato dal trauma. Ma tutte le storie si somigliano perché il loro significato è – tragicamente – lo stesso: «Quando priviamo un bambino della sua libertà – spiega Satyarthi – lo priviamo di tutto: della salute, dell’infanzia, del diritto a studiare per costruirsi un futuro. E così facendo derubiamo la società di cui fa parte del suo contributo, creando i presupposti per un mondo in cui la schiavitù, anziché scomparire, persiste». Ma non è tutto perduto. Brasile e India hanno già fatto passi da gigante nella repressione del lavoro minorile. Il loro segreto? Non limitarsi a criminalizzarlo, ma cercare di prevenirlo con leggi ad hoc, ad esempio erogando un contributo in denaro alle famiglie che scelgono di mandare i figli a scuola anziché al lavoro.

Ma per combattere le nuove schiavitù non bastano gli sviluppi legislativi. Governi e istituzioni possono e devono fare di più, ma anche le grandi aziende hanno le loro responsabilità: lo sfruttamento dei minori, per loro, è spesso un affare (basta pensare che genera ogni anno circa 140 miliardi di euro di introiti). E poi ci siamo noi. «Dobbiamo uscire dalla nostra comfort zone, dall’illusione secondo cui viviamo in un mondo paradisiaco», insiste Satyarthi.

Chiara Severgnini