Corrado Stajano

Corrado Stajano

Un contrappasso. Corrado Stajano definisce così il rapporto tra i suoi scritti e gli studi accademici, che hanno motivato il titolo di “laureato benemerito”, il premio annuale dell’Associazione laureati in giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano. Un titolo davanti al quale prova quasi pudore e che smonta pezzo per pezzo. “Mi sono iscritto per rigetto, l’Università la frequentavo pochissimo e la mia tesi era bruttissima. Non ero un bravo scolaro”, esordisce così davanti all’uditorio presente per festeggiarlo. Poi, una volta finito l’incontro, quando la stanza si svuota e le persone se ne vanno, depone l’arma del paradosso e si siede su una sedia piuttosto alta e regale della Sala Napoleonica dove si è svolta la premiazione. Ha l’aria di chi è contento di aver rivisto vecchi amici e compagni di vita, di aver ascoltato i loro attestati di stima. Ed è soddisfatto anche di quel premio che gli è stato assegnato per più ragioni, tutte intrecciate tra loro, tenute insieme dalla passione per la giustizia.

In fondo i tomi di legge e le lezioni nelle aule della Statale hanno lasciato un’impronta indelebile, nel contenuto come nella forma. Stajano ha raccontato i temi più complessi del mondo della giustizia, nei libri, negli articoli, nei documentari televisivi. La mafia, il terrorismo, il malaffare. Lo ha fatto con uno stile quasi scientifico, equamente diviso tra saggistica e indagine. Perché questa scelta? “Io non sono lo psicanalista di me stesso”, risponde di scatto. La tentazione del paradosso è in agguato, ma decide di governarla dopo poco. “All’inizio ho scritto dei racconti tradizionali, poi ho capito che quella combinazione formava una sorta di pasticcio. Mi sono sentito come un pastaio”. Forse è anche il metodo più efficace per analizzare questioni del genere. “Non lo so, per me è stato naturale, non so come sia nato”.

La decisione di candidarsi in politica invece è nata da un’esigenza precisa. Era il 1994, Berlusconi si presentava per la prima volta alle elezioni. Il giornalista cremonese sarà senatore fino al 1996 e ora guarda quell’esperienza con lo stesso bonario distacco demolitore del suo intervento durante la premiazione. “Non so neanche se sono contento di averla fatta, ho visto un’oligarchia. Volevo essere utile, penso di esserlo stato pochissimo”. Eppure ricorda con divertito piacere l’abitudine di annotarsi su dei pezzettini di carta ciò che avveniva a Palazzo Madama, gli atteggiamenti e le frasi dei colleghi. A casa, dietro Piazza Farnese, li appiccicava tutti su un diario. “Avevo già deciso che ne avrei cavato un libro, ma non ho fatto il senatore per scrivere un libro”, conclude. La battuta permette di provare a rifare la prima domanda, che Stajano aveva in qualche modo scansato. Allora, qual è il valore di questo premio? “Io sono spesso uno straniero, ma ce ne fossero di stranieri, più stranieri di me, in questa Italia così infelice. È un Paese pieno di energie positive che vengono dimenticate, scartate. Perché devono vincere sempre i peggiori?”. Non fa in tempo a terminare la frase e la sedia è già vuota.

Marta Latini