Buonanotte, Giorno

Vivere con la narcolessia: una lotta quotidiana contro il sonno

Buonanotte, Giorno

Dic 19, 2017

di Sara Del Dot e Federico Turrisi

 

Leggere un libro, guardare un film al cinema o una partita di calcio alla televisione, mangiare a tavola con gli amici o con i propri familiari, ridere. E a un certo punto sentire un torpore irresistibile: il corpo si rilassa, i muscoli si distendono, la testa comincia ad abbassarsi e si cade in un sonno profondo. «All’inizio, quando vedi che una persona non riesce più a far niente, quando vedi un bambino che non riesce più a guardare i cartoni animati, a seguire una lezione a scuola, a mangiare un gelato, non sai che cosa fare, vai nel panico; e proprio in quel momento è fondamentale trovare qualcuno che conosce la malattia», racconta Paola Fernandez, medico di Palermo. Suo figlio Marco è narcolettico. La malattia gli è stata diagnosticata a sette anni. Adesso è un adolescente, ha 13 anni e grazie alla terapia comportamentale e farmacologica ha una vita normale. Può fare tutto, con i suoi tempi e le sue esigenze.

CHE COS’È – La narcolessia è una malattia cronica rara che colpisce 2-4 persone su 10.000. Al momento il numero dei casi diagnosticati in Italia si aggira intorno ai 2500. Si calcola tuttavia che siano almeno 25.000 gli individui che soffrono di questa patologia, senza sapere di averla e quindi senza una cura. Al momento non c’è possibilità di guarigione, ma il fatto di saperla riconoscere e trattare in maniera adeguata consente al paziente di avere una qualità della vita accettabile.

Esistono due tipi di narcolessia: quella di tipo 1 è caratterizzata da una grave perdita nell’ipotalamo dei neuroni che producono l’orexina (o ipocretina), neurotrasmettitore che serve a tenere eccitati i centri della veglia nel cervello.
I quattro sintomi cardinali della malattia sono l’eccessiva sonnolenza diurna, associata agli attacchi di sonno in cui si entra subito in fase REM; la paralisi del sonno, cioè la persona appena si sveglia rimane paralizzata per alcuni secondi; le allucinazioni ipnagogiche, in cui il soggetto sogna ad occhi aperti interagendo con la realtà; infine la cataplessia, ossia la perdita di tono muscolare provocata da forti emozioni, soprattutto positive, come una risata o l’esultanza per un goal. Un disturbo che può portare anche a improvvise cadute a terra: «spesso i pazienti considerano la cataplessia un sintomo più grave degli attacchi di sonno, perché li costringe a controllare le emozioni, a creare una sorta di blocco emotivo», sottolinea il professor Luigi Ferini Strambi, direttore del Centro di medicina del sonno all’ospedale San Raffaele di Milano.

C’è poi la narcolessia di tipo 2, in cui l’impatto sui neuroni che producono l’orexina è minore. Dal punto di vista clinico, i sintomi sono gli stessi della narcolessia di tipo 1 con la differenza che la cataplessia è assente. La narcolessia può insorgere a qualsiasi età, ma tipicamente l’esordio si manifesta durante l’infanzia o l’adolescenza.

LA DIAGNOSI – La narcolessia è a tutti gli effetti una disabilità. Si tratta però di una disabilità invisibile e ancora poco conosciuta, e questo rende molto complicato arrivare tempestivamente alla diagnosi, che rappresenta il vero punto di svolta nel percorso di una persona narcolettica.
La diagnosi di narcolessia è infatti decisiva nel caratterizzare la qualità della vita del malato, ma avviene in media tra gli 8 e i 12 anni in ritardo rispetto all’insorgenza dei primi sintomi. Ciò accade nella maggior parte dei casi perché le persone che fanno parte della vita di un narcolettico possono impiegare molto tempo a rendersi conto che la sonnolenza, la distrazione o le allucinazioni non sono segno di pigrizia, di un carattere difficile o di un disturbo psichiatrico. A questo si aggiunge il fatto che spesso gli stessi medici non sono in grado di riconoscere la narcolessia nel paziente e lo indirizzano verso cure di altro genere.

È quello che è successo a Fabio, che ha cominciato a manifestare i primi sintomi durante le scuole medie e per anni ha ricevuto solo diagnosi sbagliate. Ed è suo padre, Sergio Della Nina, a raccontare l’odissea nel nebuloso mondo di questo nemico invisibile eppure fin troppo presente nella vita del figlio.

«Fabio non aveva soltanto problemi del sonno, ma anche allucinazioni sonore. Quando abbiamo avuto i primi sospetti che fosse narcolettico, lo abbiamo portato al reparto di neurologia di Viareggio, dove ci dissero che non si trattava di narcolessia. Questo errore ha costato a mio figlio almeno 6-7 anni di sofferenze.»

I sintomi di narcolessia c’erano tutti, ma nessuno riusciva a spiegarsi quale fosse il problema di Fabio. Per anni è stato sottoposto a colloqui con psicologi e psichiatri, ha viaggiato avanti e indietro con tutta la sua famiglia per visite, sedute e controlli, e come se non bastasse ha anche perso un anno di scuola.

«Dopo le medie, Fabio, che era una mente matematica brillante, voleva fare il liceo scientifico-tecnologico perché il suo sogno era fare l’ingegnere. Ma questa sua carenza nel mantenere l’attenzione, nel riuscire a rimanere sveglio e la fatica a stare dietro al carico di studio gli hanno causato diversi problemi anche con alcuni professori, uno dei quali gli si è accanito contro e ha voluto addirittura parlare con gli psicologi che lo seguivano, facendo pressione affinché cambiasse istituto. Così, dopo aver perso un anno in terza superiore, ha ricominciato in un professionale di meccanica e, nonostante tutte le sue difficoltà, ha ottenuto il diploma e poi ha preso la patente.»

Soltanto dopo aver compiuto 22 anni Fabio riceve la diagnosi di narcolessia. Una diagnosi che ha significato una liberazione per lui e per la sua famiglia, ma che è stata anche fonte di rancore per tutti gli anni persi a combattere il mostro sbagliato.
La diagnosi ha permesso a Fabio di iniziare a curarsi davvero e a vederne presto i risultati. Tutto ciò anche grazie alla perseveranza dei suoi genitori che non si sono mai dati per vinti e che tuttora combattono per dargli la possibilità di trovare un lavoro compatibile con la sua malattia.

Ma come si diagnostica la narcolessia? Al Centro per lo studio del sonno dell’Istituto delle Scienze neurologiche di Bologna, per fare una diagnosi completa ci vogliono 48 ore. Nel corso di questi due giorni, sul corpo del paziente vengono applicati diversi elettrodi per tenere sotto costante osservazione parametri come l’attività elettrica cerebrale, il tono muscolare, i movimenti oculari, le variazioni respiratorie. Parallelamente, vengono fatti diversi test del sonno per capire se si tratta di narcolessia, e in particolare per definirne il tipo.

 

 

Il test principale si chiama Multiple Sleep Latency Test (MSLT, test di latenza media del sonno) Consiste nel valutare in quanto tempo il paziente riesce ad addormentarsi profondamente. Gli si danno a disposizione 20 minuti, e dal momento in cui si addormenta vengono registrati e analizzati 15 minuti di sonno. Più il paziente è rapido nell’addormentarsi, più risulta sonnolento. Al termine dei 15 minuti, l’esaminato viene svegliato e dovrà ripetere il test ogni due ore nel corso della giornata, senza “barare” schiacciando un pisolino tra un esame e l’altro per essere più sveglio nella seduta successiva. Il MSLT viene svolto complessivamente cinque volte, e si alterna ad altri esami che valutano diverse caratteristiche del sonno del paziente.

Il Maintainance of Wakefulness Test (MWT, test del mantenimento della veglia) ad esempio, è un test per documentare la gestione da parte del malato di sonnolenza e veglia. Nel corso di 40 minuti di osservazione, si calcola quanto tempo riesce a mantenersi sveglio senza cedere al sonno. Non appena ciò accade, viene svegliato e gli vengono poste alcune domande. Solitamente il MWT non viene fatto a fini diagnostici, ma per valutare l’efficacia della terapia.
Infine ci sono gli esami per valutare la presenza o meno di cataplessia, che consentono quindi di classificare il tipo di narcolessia da cui il paziente è affetto. Un primo test ha l’obiettivo di provocare la cataplessia, facendo vedere alla persona esaminata alcuni video che di solito la fanno ridere. Se cade a terra (o comunque perde tono muscolare), significa che ha la cataplessia. Allo stesso scopo si effettua poi una rachicentesi, ovvero una puntura lombare, che misura l’esatta quantità di orexina presente nel corpo. Se manca del tutto, il paziente ha la narcolessia con cataplessia. Se non manca ma è molto poca, la cataplessia ora non c’è, ma è molto probabile che insorga in futuro.
Terminati gli esami, il paziente esce dalla clinica con in mano un certificato di malattia rara e la prescrizione di una terapia personalizzata.

COME SI CURA – Attualmente tutte le terapie per curare la narcolessia agiscono sui suoi sintomi.
«In Italia è registrato il Modafinil, meglio conosciuto come Provigil, un farmaco stimolante», spiega Giuseppe Plazzi, professore associato di neurologia e responsabile dei Laboratori per lo Studio e la Cura dei Disturbi del Sonno del Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie dell’Università di Bologna, «ma ci sono anche il sodio oxibato (Xyrem) che migliora il sonno notturno diminuendo quello diurno, e il Pitolisant (Wakix) che favorisce la riduzione degli attacchi di cataplessia».
Sono anche piuttosto costosi, fattore che, considerato l’aumento di diagnosi negli ultimi anni, potrebbe invogliare le case farmaceutiche a investire di più. «Lo Xyrem costa 800€ a bottiglia, il Wakix 600€ ogni confezione da 30 compresse, e ce ne vogliono due scatole al mese». Plazzi spiega che per la cura della narcolessia sono state fatte diverse ricerche sull’ipotesi che si tratti di una malattia di tipo autoimmune: «ci sono stati per ora tentativi empirici: sono stati usati farmaci modulatori della risposta immunitaria e abbiamo testato immunoglobuline sui pazienti, ma con esito dubbio. Abbiamo analizzato le cellule che si trovano nel liquor, ossia nel liquido cerebro-spinale, dei pazienti narcolettici: le caratteristiche di queste cellule sono diverse da quelle delle persone sane e nel 99% dei casi presentano lo stesso background genetico. È verosimile dunque che ci sia una modulazione della risposta immunitaria che porta alla distruzione delle cellule che producono l’orexina».

Riuscire a re-introdurre l’orexina nell’organismo dovrebbe portare dalla terapia sintomatica alla guarigione della patologia. Finora, però, i tentativi di immettere l’orexina nel cervello del malato non hanno portato risultati soddisfacenti. «Siamo in grado di crearla in laboratorio ma non di somministrarla», spiega Fabio Pizza, medico ricercatore del Dipartimento di Scienze biomediche e neuromotorie dell’Università di Bologna, «la molecola infatti entra in circolo nel sangue ma non riesce a superare la barriera emato-encefalica per raggiungere l’ipotalamo».
Un’alternativa, ancora in fase di sperimentazione, è quella di potenziare l’azione della poca orexina residua nell’organismo dei pazienti che non ne sono completamente carenti.

Sebbene la sconfitta della narcolessia sia ancora un traguardo lontano, non c’è dubbio che la cura cambi sostanzialmente la qualità della vita di un paziente narcolettico. Dal momento in cui comincia ad assumere le terapie, infatti, nella gran parte dei casi il malato comincia ad avere un maggiore equilibrio tra sonno e veglia nel corso della giornata. E a vedere i risultati non è soltanto il paziente. C’è anche infatti la possibilità per gli specialisti di seguire e registrare l’attività del paziente e i miglioramenti dovuti alla terapia mentre questi conduce la propria vita quotidiana, grazie a un attigrafo, un dispositivo simile a un orologio in grado di monitorare lo stato del sonno e della veglia sul lungo periodo, anche per più di un mese.

DALLA PARTE DEL PAZIENTE – Grazie alla terapia i narcolettici possono avere sì una vita normale, ma non possono essere considerati individui come tutti gli altri. Non hanno deficit di tipo cognitivo o motorio, ma hanno diritto, se maggiorenni, a chiedere l’invalidità civile o, in età scolare, un Piano Didattico Personalizzato (Pdp) commisurato alle potenzialità dell’alunno. Il problema è che la narcolessia, a differenza di altri tipi di invalidità, non si vede. E si conosce poco. Non solo fra gli insegnanti e i datori di lavoro, ma anche fra gli stessi medici. «Il motivo è presto spiegato: nei corsi di laurea alla medicina del sonno vengono dedicate poche ore», afferma Icilio Ceretelli, presidente dell’Associazione Italiana Narcolettici e Ipersonni (Ain).

Proprio dall’esigenza di far conoscere la malattia e di dare voce ai pazienti narcolettici e alle loro famiglie è nata l’iniziativa di realizzare un libro bianco sulla narcolessia sia in età pediatrica sia in età adulta. Il libro bianco sulla narcolessia nel bambino è stato presentato lo scorso 2 dicembre a Bologna, mentre quello sull’adulto narcolettico è ancora in fase di preparazione. Punto di partenza del progetto, al quale hanno collaborato tre studentesse di Infermieristica dell’Università di Bologna, sono stati i racconti dei genitori. “A chi mi devo rivolgere quando noto qualcosa di strano in mio figlio? Come cambia la vita familiare? Che cosa può o non può fare mio figlio nella vita?” sono queste alcune delle domande che emergono dalle esperienze di chi convive quotidianamente con la malattia.
Oltre ai genitori con figli che hanno ricevuto la diagnosi di narcolessia, il libro bianco è rivolto alle persone che stanno intorno al bambino narcolettico: insegnanti, allenatori e anche pediatri. «Il libro bianco vuole essere uno strumento comune di comunicazione fra pazienti, familiari e medici, il più comprensibile possibile», racconta Francesca Ingravallo, professoressa di Medicina legale all’Università di Bologna e membro del comitato scientifico dell’Ain. Obiettivi: creare consapevolezza, capire i bisogni dei pazienti e dei loro familiari e soprattutto migliorare la capacità di individuare i sintomi in modo da superare le problematiche legate a una diagnosi tardiva.
La lotta alla narcolessia deve essere tempestiva e cogliere sul tempo la patologia prima che sia questa a cogliere impreparato chi, ignaro di esserne affetto, ha già iniziato a costruire la propria vita. «Pensiamo a un adulto che abbia già fatto scelte di vita con investimenti, anche economici, importanti, come un autista di camion o una guardia giurata», aggiunge Ingravallo, «qualora gli arrivasse una diagnosi di narcolessia, e scoprisse all’improvviso di essere inadeguato al lavoro che fa da tutta una vita, ricominciare daccapo con una professione diversa da quella che ha sempre svolto sarebbe molto più complicato e doloroso rispetto al dover ancora cominciare un percorso, come può accadere invece a un bambino cui la diagnosi arriva alle elementari o alle medie. Certo, è frustrante sapere di avere dei limiti ed essere consapevoli che determinate professioni resteranno soltanto un sogno lontano, ma almeno saprà di poter investire solo su aspirazioni compatibili con la sua malattia».
Sempre nella direzione di aiutare a fare una diagnosi corretta ed evitare anni di attesa va l’altro progetto che sta portando avanti l’Ain: le “red flag”della narcolessia, ossia campanelli d’allarme che segnalano una sospetta narcolessia. Un’iniziativa che coinvolge diverse branche della medicina, dalla neuropsichiatria alla pediatria passando per medicina generale. «Non vogliamo che il medico di famiglia faccia la diagnosi», precisa Ceretelli, «se però ha un qualche sospetto di narcolessia deve mandare subito il paziente in un centro di medicina del sonno per effettuare delle analisi specifiche».

Per quanto possa arrivare dopo anni, la diagnosi non è un punto di arrivo, ma l’inizio di un altro percorso, quello dell’accettazione della malattia. «La qualità della vita comincia a migliorare non appena si accetta il fatto che la narcolessia fa parte di te», dice Massimo Zenti, narcolettico e vicepresidente dell’Ain. Superare la vergogna, combattere contro i pregiudizi e la stigmatizzazione sociale. Conoscere e conoscersi: da qui parte la cura della narcolessia.