Madri (di) Natura


Celebrare la maternità, vivere l'esperienza del parto nel modo più naturale possibile. Educare i propri figli a casa, controllare il cibo che mangiano.
In un mondo sempre più "artificiale" e frenetico, ci sono donne che scelgono di vivere la propria maternità con un ritmo diverso.

Madri (di) Natura

Gen 2, 2018

di Sara Del Dot e Ambra Orengo

Marisa, una volta al mese, si riunisce con altre donne, conosciute o estranee, per parlare delle proprie paure e speranze, del presente, passato e futuro. Prima di diventare madre, ha celebrato con le donne della sua vita questo rito di passaggio.
Eleonora e Carlotta hanno scelto di vivere la gravidanza nel modo più privato, intimo e naturale possibile. Rosa ha anche scelto di dare alla luce il proprio figlio tra le mura di casa.
Alessia non vuole affidare ad altri il compito di educare i suoi bambini e ci pensa da sé, «assecondando i loro bisogni e capacità» in tutto, facendo homeschooling.
Valeria, invece, ha deciso di prendersene cura preparando loro il pranzo da portare a scuola, per essere certa della qualità del cibo che mangiano.

Essere madre, a Milano nel 2018, significa poter scegliere tra infinite possibilità e avere a disposizione un’ampia offerta di servizi, opportunità, strutture, competenze. Ma vivere a Milano, per molti, significa anche vivere in un contesto frenetico e attento per lo più al lavoro. Significa avere davvero poco tempo per rallentare, fermarsi e rientrare in contatto con se stessi o con la propria famiglia.
Per questo motivo, alcune donne, nella Milano del 2018, hanno scelto di rallentare, per ritrovare il controllo sul proprio tempo, sul proprio corpo, o sul presente dei propri figli. Sono scelte compiute da donne diverse, in ambiti diversi e con risultati diversi ma con un importante elemento in comune: il desiderio di ritornare a una dimensione più naturale nel rapporto con se stesse, durante la gravidanza e il parto, nella scelta di come crescere ed educare i propri figli, nel modo di nutrirli.

Non vale per tutte, ma spesso, chi tra queste donne sceglie di vivere un aspetto della propria maternità in modo “naturale”, ha scelto in passato, o sceglierà in futuro, anche un altro ambito nel quale portare avanti questa decisione.
Chi le guarda da fuori, a sentir loro, spesso ne giudica le scelte come “capricci” o “stranezze”. Loro, invece, difendono il proprio percorso perché sintomo di un bisogno reale e profondo di rallentare e riprendere il controllo. Un bisogno che non tutte le donne hanno o esprimono, ma che loro, con forza, rivendicano. Alcune di queste scelte appaiono inoltre controverse e rischiose. Coinvolgono la salute e la crescita dei bambini e dividono l’opinione pubblica e gli esperti. Ma oltre ai dati e ai diversi punti di vista, le storie di chi ha preso queste decisioni raccontano la “voglia di naturale” che c’è dietro.

La maternità, un rito di passaggio: la Tenda Rossa e il Blessingway

«Non è un gioco suggestivo un po’ nostalgico, ma è uno spazio rosso, uterino, di profondo raccoglimento interiore. Per la nostra vita di donne nella società di oggi può essere un’occasione per tornare in contatto con le nostre competenze, con il nostro valore e anche con la responsabilità di portare questo nel mondo, e di essere noi per prime coloro che proteggono la nostra sicurezza e il nostro benessere senza delegarlo ad altri.» – Arianna

«Le donne sono preziose, forti, capaci e hanno dentro di sé un antico impulso a riunirsi in cerchio e ritrovarsi assieme». È questo il concetto di base della Tenda Rossa delle Donne, ed è proprio questa l’atmosfera che vi si respira.
Ha un effetto straniante camminare nel caos di Milano alle otto di sera, uscire dalla metropolitana, fermata Moscova, entrare nel silenzioso cortile interno in cui si trova lo Spazio Oasi, scendere una scala e all’improvviso ritrovarsi in un luogo silenzioso, rosso, un cerchio di cuscini e candele, in mezzo ad altre donne mai viste prima che entreranno presto in una connessione profonda.

La Tenda Rossa non è un luogo preciso, né è composta da un gruppo sempre uguale di persone. È una situazione, un’esperienza a cui può partecipare qualunque donna di qualsiasi età, anche per una sola volta, anche solo per provare a qualcosa «di diverso, di profondo, assecondare il bisogno di guardarsi dentro e ascoltare con attenzione le proprie sensazioni in un’atmosfera carica di spiritualità».

Si può organizzare in luoghi diversi, all’aperto o al chiuso. Fondamentale è la presenza di donne riunite in cerchio e ben disposte a trascorrere due ore in un’atmosfera di condivisione e introspezione, senza paura di aprirsi e senza pregiudizi nei confronti delle persone che si hanno davanti. Un’unica regola: ciò che viene detto sotto la tenda, rimane sotto la tenda. È la premessa per potersi fidare le une delle altre.
Nel corso delle due ore sotto la tenda si ha la sensazione di essere ascoltate. Le partecipanti vengono accompagnate nelle proprie riflessioni, incentivate ad ascoltare e ad ascoltarsi «senza propaganda, senza scopi terapeutici, semplicemente con la tranquillità di essere tra persone amiche, seppur in gran parte estranee, lì presenti per lo stesso, identico motivo».

A Milano la Tenda Rossa è organizzata da Marisa Conte, Carine Maset e Arianna De Micheli. Tre donne completamente diverse, tre scelte di vita diverse, tre professioni diverse che confluiscono tutte nelle attività che vengono organizzate sotto la tenda. Sì, perché gli incontri sotto la tenda rossa non sono mai uguali l’uno all’altro. Ci sono momenti dedicati alla danza, alla musica, si fa meditazione, conversazione, viene incentivata la comunicazione introspettiva, l’auto-ascolto, l’auto-osservazione, si conducono riflessioni su temi scelti in precedenza… Tutto questo accompagnato da una tisana o da un bicchiere di vino.

 

 

Ma chi partecipa alla tenda rossa? Con che tipo di donne si entra in contatto in quest’esperienza così intima e particolare?
Sotto la tenda rossa si trovano donne di qualsiasi età, con professioni e situazioni familiari estremamente diverse, solitamente non in situazioni di emergenza familiare o bisognose di aiuto di tipo terapeutico.

Nello stesso cerchio c’è la studentessa universitaria che trova in quello spazio un luogo in cui fermarsi un paio d’ore, sedersi appoggiata al muro, parlare senza guardare il telefono, senza aspettare qualcuno, senza dover correre a un appuntamento; c’è la donna adulta che sta attraversando una fase di profondo cambiamento e approfitta della tenda rossa per intensificare le proprie riflessioni o anche solo per sgomberare la mente dai problemi quotidiani; c’è la signora che solo ultimamente ha cominciato a osservarsi da fuori, sta cominciando adesso a conoscersi e vuole condividere questo cambiamento con altre persone.

«Abbiamo accolto donne dai 14 anni agli 80 anni. Questo è molto prezioso perché essere così trasversali nell’età consente un reciproco arricchimento e ci ricorda come ogni donna, nel corso della propria esistenza, sia abitata dalle sue diverse fasi della vita.» – Arianna

La Tenda Rossa delle donne però non è soltanto questo. Al riunirsi in cerchio come pratica antica infatti si collegano anche altri modi di celebrare la donna, in particolare in concomitanza con avvenimenti importanti. Queste celebrazioni si chiamano Blessingway, e spesso vengono svolte nel corso di una gravidanza, quando per una donna si avvicina il momento del parto.

 

«Si diviene donne in continuazione, e a volte fermarsi e segnare queste tappe speciali con qualcosa di rituale è molto importante, è un recupero di qualcosa di antico che però è estremamente moderno.» – Marisa

Il Blessingway è una celebrazione, una sorta di rito ispirato a un’antica tradizione, dedicato esclusivamente alle donne e al festeggiamento di tappe importanti nella loro vita.
Viene spesso organizzato verso la fine della gravidanza, per dare forza alla festeggiata durante il parto, per ricordarle il fatto che non è da sola, che è dotata di grande forza, che ha il pieno controllo del proprio corpo e quindi la possibilità di portare a termine il proprio percorso.

Ma come funziona se si desidera organizzare un Blessingway? A chi ci si rivolge, quali persone si invitano, a cosa bisogna pensare?
Marisa, che di un Blessingway è stata protagonista poco prima della nascita di suo figlio, ha una risposta per tutto: «per prima cosa, si contatta la Tenda rossa delle Donne. Noi, che siamo le organizzatrici, ci occupiamo di tutto: dalla personalizzazione dell’evento, dedicato alla donna, a come è fatta e a cosa desidera, fino al “reclutamento” delle invitate; quindi componiamo un gruppo e prepariamo le donne partecipanti a organizzare la sorpresa per la festeggiata. Ovviamente pensiamo anche al catering, perché, come in una Tenda Rossa, anche il nutrimento è molto importante, ed essendo una vera e propria festa si beve e si mangia. Poi possiamo anche organizzare delle attività divertenti e coinvolgenti. Tutto è personalizzato, quindi se una donna ha a cuore un tema particolare verrà creato un Blessingway su quello che la donna desidera avere in quell’occasione speciale per lei.»

Questa festa viene organizzata principalmente per sancire un passaggio, come una sorta di addio al nubilato in chiave spirituale. E, proprio come in un addio al nubilato, è dedicato esclusivamente alle donne e alle figure femminili importanti della loro vita.
Proprio come in una tenda rossa, il Blessingway avviene in un cerchio, al cui centro si trova la festeggiata. Ciascuna partecipante le porta un dono e nel corso della festa verranno dette delle cose positive che la caratterizzano.

Marisa, Arianna e Carine hanno iniziato da poco a organizzare i Blessingway, e non è stato un caso. Marisa racconta infatti che «l’introduzione dei Blessingway nelle loro attività ha significato raccogliere un bisogno, una necessità delle donne di oggi di celebrare se stesse, di ricordare a se stesse che sono in grado di gestire il proprio corpo e le proprie scelte, e di fare questo traendo la forza dalle persone che stanno loro attorno».

 

«È un grande regalo che una donna può fare a se stessa. Nell’occasione del parto, dopo un Blessingway tu sai che quel corpo lì è tuo e lo sai gestire bene.  Puoi esprimere tutto il potere che hai nella piena consapevolezza di diventare madre.»

In casa si nasce: la scelta del parto a domicilio

 

Quando arriva il momento di diventare madre, non tutte fanno la stessa scelta. Alcune donne scelgono di partorire non in ospedale ma in un luogo dove ci sono solo un bagno, una cucina, una stanza da letto e un salotto. Oltre alla sala visite e alla stanza per gli incontri pre e post parto. Le caratteristiche della Casa maternità La Via Lattea, in via Morgantini 14 a Milano, sono quelle di un’abitazione normale, con l’aggiunta degli elementi utili a svolgere la sua funzione. Che è quella di «accompagnare la donna in tutto il percorso della maternità: gravidanza, parto in sede, puerperio a domicilio, primi anni di vita del bambino». Lo staff della casa è composto principalmente da ostetriche ed educatrici, che lavorano in collaborazione con ginecologo, pediatra e psicologo. Il percorso di ogni coppia all’interno della casa è diverso. C’è chi ci arriva già alla prima gravidanza, chi solo alla seconda. Chi segue solamente il corso pre parto e poi partorisce in ospedale, e chi invece sceglie il parto a domicilio (proprio o in casa maternità). Chi segue un percorso più lungo, anche dopo la nascita del figlio e chi invece si ferma lì. Percorsi diversi ma tutti accomunati dal desiderio di “sentirsi a casa”. Di vivere la gravidanza e il parto nel rispetto della sua natura fisiologica, recuperando l’intimità di quel momento in un contesto professionale ma demedicalizzato.

 

 

Ma non è solo il bambino ad essere al centro delle attenzioni di chi frequenta e gestisce la Casa maternità. È la coppia, papà compreso, ad essere importante. «Qui ti fanno mettere l’attenzione su te stessa. Su quali sono i tuoi desideri, i tuoi bisogni. Che è una cosa fondamentale perché lui possa nascere bene», dice Isotta De Martini, 24 anni, indicandosi il pancione. Lei si è rivolta alla Casa maternità, e ha deciso di dare alla luce qui il suo bambino, perchè «non ha mai avuto un buon rapporto con gli ospedali. E non mi ci ritrovo nei protocolli, in come vengono gestite le nascite». «Qui invece si sta bene – aggiunge – ci si sente a casa». Sarà che anche lei e suo fratello, 20 anni fa, sono nati nella Casa del parto, la predecessora della Via Lattea. «Mi ha consigliato mia mamma di venire qui».

L’idea di base è quella che una donna, purchè controllata, sana e nel rispetto di certi parametri, sia in grado di partorire “da sola”, senza quella “medicalizzazione eccessiva” che tante di loro indicano come il principale problema del parto in ospedale (dove episiotomie e tagli cesarei – intorno al 35%, mentre la soglia indicata dall’Oms è il 15% – sono più frequenti di quanto sembri necessario e il 21% delle madri ha dichiarato di aver subito violenza ostetrica). L’ostetrica della Casa maternità o quella che segue un parto a domicilio “accompagna” la donna, e la coppia, in un momento vissuto nel modo più naturale possibile.

Secondo i dati forniti dalla Casa maternità, La Via Lattea ha seguito negli ultimi 15 anni circa 600 parti (di cui una metà a domicilio e metà in sede). All’anno, si contano anche una ventina di accompagnamenti per parti in ospedale. Ogni ostetrica della casa viene formata, attraverso corsi obbligatori dell’Associazione Nazionale Ostetriche, sulle emergenze specifiche domiciliari. Nel corso dell’attività, circa 2/3 donne all’anno (su una media di 20) sono state trasferite non d’urgenza in ospedale mentre un solo neonato è stato trasferito in ospedale dopo qualche ora dal parto (per accertamenti a causa del colorito, poi dimesso senza problemi).

 

 

«La Casa maternità è un luogo a cui le coppie possono riferirsi e poi scegliere. Non per forza chi viene qui ha già chiaro cosa vuole o sceglie la nascita fuori dall’ospedale. Noi diciamo loro che se vengono qui, iniziamo a camminare insieme e forse li aiuteremo a chiarire cosa vogliono», spiega Paola Olivieri, responsabile della Casa maternità La Via Lattea. Per anni ostetrica in ospedale, nel 2003 si è licenziata e si è unita al gruppo della Casa maternità. «Non mi bastava vedere le coppie in quel periodo così breve. Senza saper nulla del prima e del dopo».

«Siamo molto onesti e chiari con le coppie, già in gravidanza, quando si programma un parto fuori dall’ospedale. Diciamo loro: ‘guarda che potrebbe accadere, ad esempio, una perdita di sangue. E a quel punto andremo in ospedale’. Non c’è niente di più importante che la coppia scelga. E, nel caso, avremo anche bisogno della loro collaborazione. Serve fiducia reciproca». «Io non posso garantire alle coppie che non succederà nulla», conclude. «Ma ciò che posso garantire è l’attenzione alla selezione e alla modalità di assistenza».  

«L’accoglimento di un’ostetrica e di tutte le figure che sono all’interno della casa maternità ti fa sentire che non sei sola, che sei migliore, più capace.» – Carlotta Marangoni, 32 anni, dietista.
Si è rivolta alla Casa maternità fin dal primo figlio ed è sempre stata «improntata su tutto ciò che è ‘naturale’». Non ha potuto fare il parto in casa, come avrebbe voluto per un problema di salute. 

«Il corso pre-parto qui mi è stato utilissimo per prendere prima di tutto del tempo per me, per vivere la gravidanza in maniera più consapevole e più lenta rispetto a quello che è la corsa di Milano. Quella era una bolla per noi, un momento tutto nostro.» – Eleonora Cuccaro, 30 anni, lavora nelle risorse umane.
Ha partorito il suo primo figlio in casa maternità e la seconda a casa sua. Gli ospedali «le hanno sempre messo ansia» e ha scelto di rivolgersi alla Via Lattea.

A causa dei bassi numeri del parto in casa (tra i 500 e i 1.000 all’anno, circa lo 0,1% del totale), non esiste un’indagine sistematica sul fenomeno né sulla sua sicurezza rispetto a quello ospedaliero. Non esiste infatti un registro ufficiale e i dati del Cedap, i certificati di assistenza al parto, spesso sono incompleti: in molte regioni non prevedono una voce specifica per il parto a domicilio.

Per la Società italiana di neonatologia (Sin) quella del parto a domicilio è una scelta rischiosa per la salute del bambino e della mamma. In un comunicato diffuso nel dicembre del 2016, la Sin sottolinea che «non è possibile escludere, con assoluta certezza, la possibilità che si presentino delle complicazioni» che, in caso di parto a domicilio, «implicherebbero un necessario e immediato trasferimento in ospedale, anch’esso di per sé rischioso». Pur riconoscendo che «il parto è un evento naturale e come tale deve essere vissuto» e condividendo le ragioni di chi vorrebbe partorire a casa, la Sin sconsiglia questa scelta per «la situazione del nostro sistema sanitario». Ad esempio, scrive, non c’è una rete capillare di ambulanze e bisogna fare i conti con la vicinanza e raggiungibilità di Terapie Intensive Neonatali.

«Tra il 4 e l’8 per mille dei parti presentano delle complicazioni. In questi casi, se si è in ospedale, si è più sicuri che a casa», sottolinea il professor Mauro Stronati, Presidente della Sin. «L’Italia non è adeguatamente pronta al parto in casa – continua – Chi fa questa scelta ha un’ambulanza sotto casa pronta a partire? Ha avvertito il centro di Terapia Intensiva Neonatale più vicino, accertandosi che ci sia posto? Io non credo». «Dirigo il Centro di Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico San Matteo di Pavia. Credo che in tutta la provincia qualche parto in casa ci sia stato. È possibile che io non abbia mai ricevuto negli ultimi 20 anni una sola telefonata per allertarci in caso servisse? Non è un dato nazionale, ma…»
Tuttavia, pur sconsigliandola, la Sin fornisce 6 indicazioni da seguire nel caso in cui la donna e il suo medico ritengano di seguire questa procedura.

«Quando partorisci in ospedale perdi la connessione intima con il tuo corpo. L’ho ritrovata durante il parto a casa perchè non avevo nessuna interferenza ed ero presente in quel momento, con tutti i miei dolori e tutte le percezioni fisiche che ci sono in quei dolori (…) Non c’è bisogno di chiedere a un’infermiera o all’ostetrica. Te ne rendi conto da sola. Perchè è una cosa che noi abbiamo nel nostro dna. Siamo perfettamente competenti» – Rosa Barranco, 35 anni.

«Entrambe le parti hanno ragione». Niccolò Giovannini, ginecologo del Policlinico Mangiagalli di Milano, sottolinea che sulla questione sia necessario «trovare una giusta via di mezzo e valutare il parto caso per caso senza seguire necessariamente un protocollo stabilito a priori. Protocollando – dice – la gente perde potere e noi medici, per formazione, tendiamo a mantenere un atteggiamento paternalista». Il parto infatti è un evento che riguarda più fasi della vita ed è quindi fondamentale «personalizzare l’intervento prestando più attenzione all’aspetto fisiologico (prima, durante e dopo il parto) senza concentrarsi esclusivamente su quello patologico».

Il parto in casa, concordano favorevoli e contrari, non è per tutti. «Non lo sarà mai», sottolinea Paola Olivieri. Dipende dalle caratteristiche della donna (che non deve avere patologie o problemi) ed è necessaria la presenza di ostetriche formate e di una struttura ospedaliera attrezzata e facilmente raggiungibile, a non più di 30/40 minuti dal luogo del parto (secondo quanto stabilito dalle Linee Guida per l’assistenza al parto a domicilio e casa maternità).

«La prima cosa da chiarire», ha spiegato Marta Campiotti, Presidente dell’Associazione Nazionale Ostetriche Parto a Domicilio e Casa Maternità, in un’intervista a Business Insider, «è che ci sono criteri stringenti per accedere al parto in casa. Restiamo insomma su una fascia di basso rischio, anche se il rischio zero non esiste mai di fronte all’evento parto, neppure in ospedale». Le caratteristiche delle future mamme, la competenza del personale che assiste e una rete di supporto che preveda un ospedale nelle vicinanze sono le condizioni basilari per prendere in considerazione la possibilità di un parto non in ospedale. Oltre alla disponibilità economica, per una scelta che «è ancora vista da molti come uno sfizio, un capriccio», sottolinea Olivieri. «Qualcosa di alternativo e naturale, ma in un senso negativo. E invece è un profondo desiderio delle donne».  

Niente banchi, voti e campanelle: l’homeschooling

 

«Io voglio un figlio felice. Io, come madre, credo che il mio compito sia avere dei figli felici. Come saranno felici, che cosa li renderà felici, io adesso non lo so. Ma non lo sanno nemmeno loro, lo dobbiamo scoprire insieme. Chi ha stabilito che mio figlio sarà felice se in terza media saprà a memoria i Promessi Sposi?» – Alessia

Alternativo e naturale è anche il modo in cui sempre più famiglie scelgono di impostare l’educazione dei loro figli: istruzione personalizzata a seconda dei bisogni e delle potenzialità del bambino, niente compiti, niente orari, apprendere giocando, vivere imparando. Questi sono soltanto alcuni dei principi fondamentali dell’educazione parentale, o metodo homeschooling, la pratica che trasforma i genitori in insegnanti e tutto il mondo in una grande aula.
L’homeschooling è ormai definito come un vero e proprio metodo educativo e consiste nel crescere il proprio figlio in casa attraverso il gioco e l’istruzione da parte del genitore stesso. In questo modo il bambino non ha orari fissi da seguire, non ha un programma di apprendimento giornaliero da completare rigorosamente, ma impara seguendo le proprie predisposizioni e i propri tempi, anche e soprattutto vivendo la città e il mondo stesso a 360 gradi.
Si tratta di una scelta complicata, che comporta responsabilità enormi per i genitori, che si sostituiscono in tutto e per tutti agli insegnanti di scuola, e quindi rivestono il duplice ruolo di madre (o padre) ed educatore. È un compito importante e delicato, e il genitore deve essere a tutti gli effetti in grado di sopperire alla mancanza di una figura esterna esclusivamente dedicata all’apprendimento del bambino.

Erika De Martino è ad oggi il vero volto dell’homeschooling in Italia. Ex insegnante, blogger, social media manager, consulente famigliare, con i suoi 5 figli tutti partoriti ed educati in casa, Erika tiene conferenze in tutto il Paese, segue le famiglie alle prime armi, fa informazione attraverso il suo blog, racconta la propria vita e quella della sua famiglia per diffondere e divulgare questo metodo.

Non esiste un numero preciso di homeschoolers in Italia, ma si stima che siano tra i 1.000 e i 1.500. Solo a Milano e dintorni il numero si aggira attorno alle 150 famiglie, e le cifre sembrano in costante aumento. Erika racconta infatti di essere continuamente contattata da genitori che vogliono anche solo avere qualche consiglio o maggiori dettagli sull’educazione alternativa.

 

«Le ragioni che portano una famiglia ad adottare il metodo dell’educazione parentale sono tantissime e tutte soggettive: possono riguardare una disabilità del bambino o una particolare difficoltà ad affrontare i programmi classici, possono essere di tipo religioso oppure riguardare il fatto che la famiglia viaggia di frequente o si trasferisce spesso per cause lavorative.» – Erika

Ma il motivo che sembra dominare tra le mamme homeschoolers è l’insoddisfazione nei confronti del metodo di apprendimento imposto dalla scuola tradizionale e, molte volte, una vera e propria battaglia contro un’istituzione vista come «un deposito dove lasciare i bambini mentre i genitori sono al lavoro».

Visione non condivisa da pediatri e pedagoghi, tra cui il pediatra Paolo Sarti, per il quale la scuola pubblica «ha sicuramente delle pecche, dovute anche al suo de-finanziamento e alla svalorizzazione della professione di insegnante, ma è un’occasione per confrontarsi con la varietà delle cose, con situazioni economiche, culturali, religiose diverse, anche con la disabilità. Certo, andrebbe migliorata, ma può fare vivere al bambino l’esperienza del mondo, la sua varietà, e questo non è facoltativo».

Naturalmente fare homeschooling non è una scelta per tutti. La decisione deve essere condivisa dall’intera famiglia, e a consentirla deve essere soprattutto il lavoro dei genitori. Erika, infatti, ha reinventato la propria occupazione per poterla conciliare con l’educazione continua che dà ai suoi figli. E non è la sola.

 

Anche Alessia Rossetti, madre di Lucio e Mario, ha abbandonato un lavoro che la impegnava 12 ore al giorno per diventare consulente di babywearing. Ora insegna ai neo genitori come portare i propri figli in fascia, perché, dice, «il contatto con il bambino non va mai sottovalutato».
Mario e Lucio sono due bambini molto diversi, con predisposizioni e competenze quasi agli antipodi. Alessia spiega che per due bambini così differenti non sarebbe affatto utile un tipo di insegnamento uguale per entrambi, standardizzato. Così come nel confronto con altri bambini, nella valutazione in una determinata materia uno dei due si sentirebbe sempre e comunque inferiore all’altro, anche se magari è più bravo in un ambito diverso. Fuori dalla classe, invece, entrambi possono capire in cosa sono più capaci, avere le proprie soddisfazioni e imparare a collaborare assieme.

«Noi ci lamentiamo sempre di una società non basata sulla collaborazione, ma la gente cerca in ogni modo di pugnalarti alle spalle se questo significa avanzare in carriera. A scuola, una delle prime regole che ti fanno rispettare è che non devi copiare o far copiare. Non esiste la collaborazione, anzi, se lo fai vieni sanzionato. Poi da adulti ci lamentiamo che se il tuo collega ha un problema, anziché aiutarlo tu ne godi. Dov’è che l’hai imparato?» – Alessia

Paolo Sarti, però, sottolinea l’importanza di avere una preparazione adeguata per poter dare un insegnamento completo e diversificato a un bambino: «Le persone che fanno una scuola famigliare in qualche modo presumono di essere in grado di proporre la varietà del mondo e invece ne ripropongono una loro visione che magari è bellissima, tuttavia la capacità intellettiva si sviluppa se si hanno davanti modelli differenti». E prosegue, «il ruolo del genitore è di sostegno, di accompagnamento, non può essere anche di insegnante, perché l’insegnante porta altro, porta il mondo, la diversità nella scuola. E poi, per insegnare ci vuole tanta esperienza, non si può improvvisare. Magari, anzi, sicuramente ci sono genitori molto più bravi di alcuni insegnanti, ma questa non può essere una garanzia che vale per tutti. Ci sono libri e libri, studi e studi da compiere per imparare a insegnare, è una professione vera e propria. E l’educazione parentale rischia di appiattire l’immagine di questa professione».

Per Angelica Taromboli, madre di Aurora e Ludovico, l’homeschooling è stata una scelta estremamente ponderata, perché lei di lavoro fa proprio la maestra elementare.

«Io ci ho messo un po’ a decidere di fare istruzione parentale. Ho pensato che fosse qualcosa di molto bello, libero, a misura di bambino. Proprio quello che volevo. Ma la mia reticenza iniziale nasceva dal fatto che io sono una maestra. Come potevo non mandare i miei figli a scuola?» – Angelica

 

E la socializzazione? A sentire gli homeschoolers, il rapporto con gli altri bambini sembra l’ultimo dei problemi. Anzi, tutti ci tengono a specificare che i loro figli, gli amici, se li scelgono da soli, senza essere “costretti” a interagire soltanto con i 20 bambini della classe. Inoltre, la rete degli homeschoolers è molto attiva e coesa. Si incontrano spesso e organizzano attività da fare insieme: dalle visite ai musei, allo sport, dai laboratori di cucina, ai corsi di inglese. In questo modo, dicono, possiamo vivere la città a 360 gradi con tutte le opportunità che offre.

Per i contrari, però, è proprio la mancanza di una differenziazione dei ruoli a essere dannosa per la crescita: «Il bambino deve imparare a recepire le frustrazioni e a capire dove si trova e chi ha davanti», prosegue Sarti, «Questo non è un istinto, è un’intelligenza che va acquisita con l’esperienza. È come quando sai che quando c’è il nonno puoi fare delle cose che se ci sono i tuoi genitori non puoi fare. Il bambino capisce che ci sono cose che può e non può fare a seconda delle situazioni, ma questo si apprende solo vivendo».

Educazione in natura: l’Asilo nel Bosco

Ma l’universo dell’educazione alternativa non è composto solo dall’educazione parentale. Ci sono alcuni luoghi in cui il bambino entra in contatto con la natura vera e propria.
Oltre il cancello della Cascina Sant’Ambrogio, un’isola verde nel mare d’asfalto della metropoli, c’è un cartello marrone. Sopra, in stampatello, le regole da seguire per chi vuole trascorrere del tempo in quel luogo pieno di piante, orti, animali e mongolfiere di pezza.
Sono le uniche norme di comportamento per i bambini iscritti all’Asilo nel Bosco di Milano, una delle circa 60 strutture di asilo alternativo presenti attualmente in Italia.

Le regole dell’Asilo nel Bosco:

Qui la natura è maestra. In questo pezzo di terra si può: giocare con la paglia, giocare con le pozzanghere, saltare, correre, gridare, essere tristi, felici, arrabbiati…

Gli asili nel bosco nascono per dare ai bambini in età prescolare la possibilità di frequentare un tipo di struttura che permetta loro di passare la maggior parte del tempo nella natura, seguire i propri istinti e comportarsi proprio come tutti i bambini vorrebbero: si corre sull’erba, si salta nelle pozzanghere, si cucina la terra, si raccolgono pigne, si guardano le galline.
I princìpi sono tanto semplici quanto apparentemente incompatibili con una città metropolitana: riconnettere i bambini alla natura, permettere loro di stare all’aria aperta con qualsiasi temperatura e condizione meteorologica, incentivando le loro capacità di adattamento e imparando a usufruire delle cose che il mondo regala attraverso l’esperienza diretta. Infatti, l’assunto fondamentale dell’asilo nel bosco è che il tempo lo si trascorre fuori.
«Piove e si bagnano i vestiti? Bene, giocheranno e poi andranno subito dentro a cambiarsi». Eliana Rochetti, responsabile, educatrice e madre, racconta che non è necessario che l’asilo nel bosco sostituisca completamente l’asilo tradizionale. «Anzi, ci sono alcuni bambini iscritti che frequentano l’asilo nel bosco soltanto due giorni alla settimana, trascorrendo i rimanenti tre in strutture più tradizionali.»

 

«Il bambino viene assecondato nel suo modo naturale di comportarsi, lo si aiuta a riconnettersi con il mondo reale. Inoltre, tutte le difficoltà e i malumori vengono accolti e affrontati insieme, senza semplicemente aspettare che passino da soli».
Eliana racconta che i genitori sono felici di aderire al progetto, soprattutto perché l’inserimento può avvenire a lungo termine, e vengono incentivati a passare del tempo nella struttura con i loro bambini per aiutarli ad ambientarsi, lasciandoli solo quando loro stessi, assieme alle educatrici, ritengono siano pronti. In questo modo si viene a creare una connessione non soltanto con il bambino, ma con il genitore stesso. Ovviamente i dubbi su questo tipo di educazione non mancano, ma bisogna provare per capire se questo possa essere un luogo adatto al proprio bambino: «All’inizio temevo che mio figlio sarebbe diventato un selvaggio», confessa una mamma che ha iniziato da poco a portare il proprio bambino all’asilo nel bosco, per ora soltanto di giovedì e venerdì, «Invece mi sono accorta che in questo modo riesce anche lui a capire meglio quando si può scatenare e quando invece si torna a casa e si sta tranquilli».

Te lo prepara la mamma: il pranzo da casa

 

Per tutte queste mamme, la casa è il centro. È il luogo dove si nasce, si cresce e si mangia. O per lo meno dove si prepara il pranzo. Lunedì: pasta al pesto. Martedì: vellutata di carote e un toast. Romeo, 9 anni, mangia ogni giorno nella mensa della sua scuola. Ma il suo non è uno dei circa 85mila pasti – tra scuole, residenze sanitarie e centri vari – preparati dalla Milano Ristorazione. Il suo pranzo lo ha preparato Valeria Venturin, la sua mamma.

 

Da Torino a Milano, passando per altre città italiane, nell’ultimo periodo si sono moltiplicate le voci dei genitori che chiedono alla scuola di poter fornire loro stessi il pranzo ai figli. Dopo gli iniziali “no” categorici da parte delle istituzioni, sono arrivati i primi via libera: la sentenza della Corte di Appello di Torino (settembre 2016) e la presa d’atto del Miur (marzo 2017) hanno aperto alla possibilità di portarsi il pasto da casa. È la “rivincita della schiscetta”, con alcune condizioni e diverse critiche. Sedersi allo stesso tavolo dei compagni, mangiare le stesse cose: quanto questo faccia parte o meno del processo educativo e dei compiti della scuola ha acceso il dibattito. E se, inizialmente, i bambini con il pranzo da casa non potevano accedere alla mensa, ora possono farlo ma con delle regole. Nella scuola di Romeo, ad esempio, i genitori firmano una liberatoria e i bambini mangiano in tavoli separati rispetto ai compagni, per evitare il contatto tra alimenti provenienti da fuori e della mensa.

A Milano è possibile fornire il pranzo ai propri figli da quest’anno scolastico. «Nella scuola di mio figlio hanno cominciato in tre bambini e in due mesi e mezzo sono già diventati cinque, presto sei». Valeria è stata la prima ad aver cominciato a mandare Romeo a scuola con la schiscetta. Inizialmente per un problema di salute del bambino, poi, come scelta consapevole. «Per me è fondamentale il discorso della qualità». E per poterla controllare c’è un solo modo: preparare tutto da sé.

 

«Il consumo consigliato di uova a testa è di due alla settimana. Io preferisco che quelle due uova le mangino a casa, che sono quelle che prendo al lago dal contadino che conosco e che ha le galline». Sano, buono e controllato ma senza esagerare. «Non puoi fare scelte troppo radicali in una società come questa. I miei figli mangiano anche le merendine e vanno da McDonald’s come tutti. Ma ho spiegato loro cosa è meglio e cosa preferisco per loro e per me. Poi saranno loro a scegliere». Valeria è vegetariana da sempre e l’attenzione al cibo caratterizza anche il suo essere mamma.

«E poi è un discorso economico. Noi risparmiamo così rispetto alla mensa. Per un solo figlio, senza presentare l’Isee spendevamo intorno ai 790 euro l’anno di mensa». Eppure per pensare, scegliere e preparare un pranzo in più tutti i giorni ci vuole tempo. «Io ho due figli, due cani e lavoro. Ma basta organizzarsi», assicura Valeria, spiegando come fa, a conciliare tutto.