«Svendeva la propria funzione». In altre parole prendeva tangenti da alcuni avvocati per «aggiustare» i processi. E’ questa l’ipotesi di accusa che ha portato in carcere, la mattina del 6 febbraio Giancarlo Longo, ex pubblico ministero di Siracusa, arrestato dalla Guardia di finanza. Con lui, altre 14 persone che facevano parte di un’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Alcuni di questi avrebbero tentato di depistare anche l’inchiesta della procura di Milano sul caso delle tangenti Eni, Il giudice che segue la vicenda ha deciso per Longo la custodia cautelare in carcere.

I fatti – Oltre a quello del pm, fra gli arrestati spuntano soprattutto i nomi di due avvocati siracusani: Piero Amara, legale di Eni, e Giuseppe Calafiore. Longo infatti avrebbe aiutato i clienti dei due legali, in cambio di soldi. E lo avrebbe fatto per cinque anni, dal 2013 al 2017. Al punto che i magistrati di Roma e Messina, che ne hanno chiesto l’arresto, hanno parlato di «mercificazione della funzione giudiziaria». Nello specifico Longo, secondo l’accusa, concorreva a redigere falsi atti pubblici o a modificare quelli esistenti, per indirizzare lo svolgimento di indagini e processi in favore degli assistiti di Amara e Calafiore che lo avrebbero ripagato con tangenti.
Longo si era inoltre costruito una rete di rapporti «dall’origine oscura e privi di apparente ragion di essere», sui quali gli inquirenti stanno ancora indagando. Per questa ragione, esiste secondo il giudice che ha convalidato l’arresto il serio pericolo che l’ex pubblico ministero possa proseguire in qualche modo le sue azioni criminose. Da qui, la decisione della custodia cautelare in carcere.

Il caso Eni – La vicenda del tentativo di depistaggio ai danni dell’inchiesta della procura di Milano nei confronti di Eni è un esempio di come agiva la presunta associazione per delinquere in cui Longo rivestiva un ruolo di spicco.
Nel 2016 Alessandro Ferraro, collaboratore di Amara e anche lui fra gli arrestati, denuncia alla procura di Siracusa un tentato sequestro a suo danno. Longo, che aveva già indagato su Ferraro in passato, si intesta il fascicolo che viene istituito. A questo punto inizia a svolgere una serie di indagini, con acquisizione di documenti che gli inquirenti oggi definiscono «di dubbia utilità» al fine di ricostruire la vicenda di Ferraro, Tutto questo gli sarebbe però servito per far sapere a Eni del suo coinvolgimento in un procedimento penale. La presunta vittima di sequestro intanto inizia a raccontare e fa anche il nome di Massimo Gaboardi, tecnico petrolifero «la cui posizione e i cui legami con i protagonisti della vicenda non è ben chiara», si legge nelle carte dell’inchiesta a carico di Longo. Gaboardi viene quindi iscritto nel registro degli indagati e interrogato. Rivela così l’esistenza di un complotto volto a destabilizzare proprio l’Eni, delegittimando Claudio Descalzi, l’amministratore delegato della società. Nei piani dei cospiratori, avrebbe dovuto essere sostituito con Umberto Vergine, ex amministratore delegato di Saipem.

Il caso Trani – Nel frattempo anche la procura di Trani, che sulla vicenda del tentato sequestro di Ferraro ha ricevuto tre esposti, svolge le proprie indagini, ma tutte le carte devono passare a Siracusa in quanto luogo dove si sono svolti i fatti.
Si arriva così a luglio 2016, quando la procura di Milano apre un’indagine sull’Eni per corruzione internazionale (i dirigenti della società avrebbero versato 1,3 miliardi di dollari alle autorità nigeriane, per aggiudicarsi l’assegnazione di un giacimento di petrolio) e Longo è costretto a rimettere tutto nelle mani degli inquirenti lombardi. «Nonostante questo – scrivono gli inquirenti che hanno chiesto l’arresto di Longo – l’ex pm continua a compiere atti nell’ambito del suddetto procedimento». Notifica ad esempio avvisi di garanzia ad alcuni dipendenti della società e a Vergine. Inizia un piano di depistaggio fatto di falsi dossier e altrettanto falsi verbali di interrogatori.
Secondo i magistrati, Gaboardi sarebbe stato pagato da Ferraro per inventare la storia del presunto complotto. Ad orchestrare tutto sarebbe stato l’avvocato Amara, legale di Eni, che voleva ostacolare le indagini della procura di Milano.

Il metodo Longo – Il magistrato agiva su tre fronti. Il primo era quello di fascicoli «specchio»: procedimenti che di autoassegnava al solo scopo di avere il via libera ad altri fascicoli d’indagine affidati a colleghi, in modo da tenere sott’occhio tutto quello che poteva essere di potenziale interesse per i clienti degli avvocati Amara e Calafiore. Fra cui, appunto, l’inchiesta aperta dalla procura di Milano sul caso delle tangenti Eni. Il secondo invece era la creazione di fascicoli «minaccia», nei quali venivano iscritti «con chiara finalità concussiva» tutti quei soggetti che potevano mettere i bastoni fra le ruote a Calafiore e Amara. L’ultimo fronte era quello dei fascicoli «sponda», creati e tenuti in vita al solo scopo di rendere legittimi incarichi di consulenza che spesso non avevano niente a che fare con il vero oggetto d’indagine, ma servivano di nuovo a correre in aiuto degli assistiti dei due.

Sapeva di essere indagato – Longo temeva la presenza di microspie nel suo studio, al punto che chiese una bonifica a un privato che lavorava con la Procura. All’epoca si giustificò dicendo che era stato messo in allarme dalla visita della Guardia di finanza, inviata dalla procura di Messina. La realtà era che aveva ricevuto la dritta da qualcuno di cui si poteva fidare, forse un altro membro della sua rete di relazioni. Tant’è che  anche se la perlustrazione del tecnico diede esito negativo, Longo era sicuro che le “cimici” ci fossero. E aveva ragione. Proprio una telecamera nascosta lo riprendeva mentre saliva sulla scrivania alla ricerca di microspie in ogni angolo della stanza.
Per capire da chi fosse arrivata l’informazione, gli inquirenti decisero di requisire il suo cellulare, ma quando arrivarono in Procura, l’ex pm se n’era già andato. Di nuovo, era stato avvertito e questa volta si scoprì anche da chi: Maurizio Musco, un collega già indagato e condannato a marzo 2017 per tentata concussione. Messo alle strette, Longo si precipitò dai magistrati dichiarando che il cellulare si era rotto e che in quel momento l’aveva lasciato nella sua casa di Mascalucia, un comune in provincia di Catania, a più di 70 chilometri da lì. Com’era prevedibile, nell’abitazione non c’era traccia del telefonino, che l’indagato aveva già fatto sparire.

Altri arrestati illustri – Fra i 15 arrestati ci sono anche due imprenditori, Fabrizio Centofanti e Enzo Bigotti, quest’ultimo già coinvolto nel caso Consip. Nel loro caso, l’associazione a delinquere serviva a orientare alcune gare a proprio favore. Compaiono poi i nomi di Riccardo Virgili, giudice del Consiglio di Stato ora in pensione, e Giuseppe Guastella, giornalista siracusano che avrebbe ricevuto dei soldi da Amara per diffamare i magistrati che valutavano i fascicoli iscritti nei confronti dei suoi clienti.