Se la montagna non c’è, il capitalista la costruisce (o la fa costruire al suo autista) per raggiungere la vetta da cui ammirare le sue proprietà. Sciacallo, cinico e feroce. Per Bertold Brecht è lui il Dr Jekyll e Mr Hyde per eccellenza: obbligato per status a pensare prima di tutto ai suoi interessi, ma uomo anche lui, quindi dotato forse di sentimenti. Doppiezza benissimo resa dal Mr Pùntila di Ferdinando Bruni, che con Francesco Frongia firma anche la regia di Mr Pùntila e il suo servo Matti, testo del drammaturgo tedesco del 1940 poco frequentato in Italia e in scena al Teatro Elfo Puccini fino all’11 febbraio.

Lo sdoppiamento – Riprendendo l’intuizione del Chaplin di Luci della città, lo sdoppiamento del capitalista non è psicologico ma reale: basta della grappa. Mr Pùntila, sempre in tuba e frac, da ubriaco vorrebbe dare propria figlia in sposa a Luciano Scarpa, il disilluso e sicuro di sé autista Matti, mandando all’aria il matrimonio combinato con un diplomatico decerebrato e squattrinato, reso in maniera brillante da Umberto Petranca. Un matrimonio pianificato da Pùntila stesso da sobrio, quando esibisce il volto di tirannico possidente imprenditore e sfruttatore. «A volte mi succede e invece di questi due bicchieri ne vedo uno solo», lamenta ubriaco reggendo in mano, effettivamente, un bicchiere soltanto. Facendo sorridere ma anche dubitare di quale sia l’autentico Mr Pùntila: lo squalo capitalista o il socievole bonaccione?

Ferdinando Bruni, Umberto Petranca, Elena Russo Arman e Luciano Scarpa

Tra morale e realismo – Niente nuoce al teatro più di una morale, e quello di Brecht paga lo scotto di essere stato scritto e pensato in un’epoca di ideologie forti. Ma il ritmo narrativo da “commedia popolare” (fu Brecht stesso a definirla così), la dimensione farsesca del testo e l’ottima interpretazione degli attori dell’Elfo subordinano la dogmaticità ideologica al vivace ritmo narrativo. Basterebbe a dimostrarlo la scena delle quattro fidanzate, popolane stortignaccole a cui Pùntila regala, in uno dei suoi slanci etilici, un anello di fidanzamento. Le quattro donne al proscenio si scambiano aneddoti di servi perseguitati dai padroni – agiografie anacronistiche della lotta di classe – ma basta il commento conclusivo della più buffa del gruppo a condire tutto di un tono farsesco: i padroni sarebbero più facili da evitare se avessero le unghie lunghe o i denti aguzzi – è il senso – e invece sono nell’aspetto proprio tali e quali ai servi, per questo li fregano facilmente. Che è poi la stessa cosa che nota sorpreso Pùntila dei suoi servi nei momenti di sbronza: «Siete esseri umani anche voi!». E i dogmi sfumano nel realismo autoparodico.

Tra ideologia e farsa – In una scenografia fatta di tagli di carne appesi, luci da festa di paese e un siparietto con pantografato un dollaro effigiato del maiale capitalista – che paradossalmente ricorda anche l’analogo orwelliano –, l’immancabile straniamento brechtiano si percepisce appena. L’empatia non è interrotta ma piuttosto rafforzata dai didascalici canti popolari su musiche di Paul Dessau e dai titoli delle scene proiettati a mo’ di commenti dei film muti: tutto è macinato nel ritmo serratissimo della finzione teatrale. Ma lo straniamento si crea comunque, a un livello diverso, con il gran dispiego di retorica con cui il contadino licenziato si allontana con la famiglia sotto un sol dell’avvenire sbiadito, simbolo dell’utopia che fu (anche di Brecht). E ci si chiede: ma davvero? La risposta doveva essere il comunismo? Ma Brecht sembrava aver previsto anche questo, laddove il sol dell’avvenire sullo sfondo è lo stesso di cui discutono a tavola pastoressa e cuoca: «Io, i funghi, non li metto in conserva, ma li infilzo su una cordicella e li appendo al sole». E anche l’ideologia diventa una farsa.