Il referendum dell’8 e 9 giugno presenta cinque quesiti. Quattro di questi riguardano il lavoro e chiedono di abrogare norme, o parti di norme, introdotte dal Jobs Act nel 2015. L’opinione pubblica è divisa tra chi sostiene che queste misure restituiscano dei diritti fondamentali ai lavoratori, riducano il precariato e aumentino la sicurezza sul lavoro, e chi invece sostiene che ingessino un mercato del lavoro che grazie al Jobs Act era stato reso più fluido, anche disincentivando le aziende ad assumere. Su questi temi offre il suo sguardo la docente Alessandra Ingrao, professoressa associata all’Università Statale di Milano in diritto del lavoro. 

Partiamo dal primo quesito, quindi il reintegro sui licenziamenti illegittimi. Secondo lei un ritorno alla legge Fornero potrebbe scoraggiare le assunzioni a tempo indeterminato da parte delle imprese?
Il Jobs Act nel 2015 fu varato proprio sulla base di questa ipotesi: che la disciplina del licenziamento illegittimo potesse condizionare in qualche modo il mercato del lavoro e le assunzioni, ma l’entrata in vigore del Jobs Act non ha cambiato nulla, non abbiamo un mercato del lavoro più attivo con meno disoccupazione. Credo invece che la disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo, e quindi nei casi in cui il datore di lavoro receda dal contratto senza una valida motivazione, tratti di un ambito patologico della relazione contrattuale. Quindi ritornare alla riforma Fornero mi sembra una misura non non tanto politicamente interessante quanto anche giuridicamente logica: si ripara la sfera lesa del lavoratore che si trova senza posto di lavoro per ragioni che non esistono. Il Jobs Act aveva diverse problematiche, non rispettava il principio di uguaglianza, di ragionevolezza. La Corte Costituzionale con una serie di pronunce l’ha modificato in larga misura e questo è la conferma del fatto che la normativa qualche problema lo avesse.

Se non è stata la disoccupazione, secondo lei quali sono i reali effetti che ha avuto il Jobs Act sul mercato del lavoro italiano?
Sicuramente ha reso più semplice il licenziamento economico per l’impresa. È molto più facile per il datore di lavoro inventare una riorganizzazione per poi eliminare delle persone che magari non sono abbastanza produttive o sono invise.

Ci sono state delle conseguenze positive dovute a questo aumento di flessibilità, ad esempio anche attraverso la facilitazione dei contratti a termine che il quesito 3 vuole cambiare?
Io credo che i posti di lavoro non si aumentino cambiando queste norme, ma con una politica industriale, con forme di investimento anche pubblico in settori strategici, come l’intelligenza artificiale. L’Italia è tra gli ultimi posti nella produzione di queste tecnologie perché non ci sono investimenti. Questo ha portato, ad esempio, alla distruzione del settore produttivo dell’industria metalmeccanica. Questa flessibilità è più una bandiera politica che una realtà giuridica secondo me. L’impresa assume quando ha bisogno perché aumenta la produzione, perché incontra dei picchi di produzione.

Passiamo al quesito numero 2, ovvero l’eliminazione del tetto massimo alle indennità nelle piccole imprese. In che modo secondo lei questa cosa potrebbe influenzare la dinamica tra datore di lavoro della piccola impresa e lavoratore. Un aumento dell’incertezza dei costi di licenziamento potrebbe portare le imprese ad assumere meno?
Qui il problema è che noi ci trasciniamo dietro una normativa che è del 1966 e che individua il concetto giuridico di piccola impresa facendo riferimento al numero dei dipendenti. Nel contesto moderno con le nuove tecnologie non è per niente coincidente con la realtà che la piccola impresa, che magari ha 15 dipendenti o 10 dipendenti, poi non abbia un fatturato superiore ad un’impresa che ne ha 50. Dentro a questa grande contenitore della piccola impresa ci sono realtà molto varie. Una società come OpenAI può sussistere con pochissimi dipendenti e molto investimento in capitale. Quindi eliminare il tetto massimo permetterebbe poi al giudice caso per caso di elevarsi oltre il tetto delle sei mensilità. Si lascia la possibilità al magistrato di ragionare sulla gravità del danno, sulle dimensioni dell’impresa, sulla grandezza in termini di fatturato dell’impresa, e quindi si rende una disciplina più aderente alla realtà.

Mi sposterei ora sul quarto quesito. Una azienda che appalta o subappalta un servizio spesso non ha competenze tecniche per quanto riguarda il lavoro che commissiona: perché secondo lei nonostante questo ha senso che si assuma la responsabilità dell’appalto? Quali possono essere le conseguenze per quanto riguarda la sicurezza?
La prevalenza del sì obbligherebbe il committente a controllare meglio prima che le persone muoiano sul lavoro in questi appalti. Ci sarebbe un’estensione della responsabilità solidale, quindi sia committente che appaltatore risarcirebbero il danno in caso di infortunio. Poi nulla impedisce che il committente si possa rivalere successivamente con un’azione differente sull’appaltatore, ma stiamo parlando di una estensione della responsabilità che aumenta le chance di controllo della filiera da parte del committente. Questi infortuni talvolta sono anche dovuti alla velocità in cui si eseguono gli appalti, all’abbattimento dei costi del lavoro all’interno della filiera e quindi mi sembra una misura dovuta.

In generale lei ritiene che questi quattro quesiti siano ben posti e siano necessari per riformare la materia in una giusta direzione?
Non è con il referendum abrogativo che si riformano materie così complesse. Per riformare i problemi di un paese ci vuole una legge. Sicuramente questo referendum va a toccare dei gangli scoperti della materia,  che si sono risolti nell’abbattimento delle tutele del lavoro a cui abbiamo assistito negli ultimi 10 anni.