14971486_1251753221554148_578350245_o“Quasi sempre chi ottiene la maggioranza dei voti popolari diventa presidente. Ma questo non vale negli Stati Uniti, a causa del particolare funzionamento del sistema elettorale”. Lo sa bene Tommaso Frosini, esperto di storia americana e presidente dell’associazione di diritto costituzionale comparato. Ma se all’occhio europeo ciò potrebbe apparire come un problema di democrazia, non lo è per il popolo americano: “Più di 200 anni di storia americana non possono essere messi in discussione”.

Donald Trump ha sbaragliato la concorrenza della rivale Hillary Clinton, spazzando via i sondaggi che lo davano sfavorito. Ma, andando ad esaminare i dati del voto popolare, Clinton ha incassato 170 mila voti in più su scala nazionale. Eppure ha perso, anche in maniera netta. Questo è dovuto al particolare funzionamento del sistema elettorale americano: la notte dell’election day i cittadini non nominano direttamente il Presidente, ma esprimono 538 grandi elettori. Saranno quest’ultimi, candidati in ogni singolo Stato dai partiti, a decidere chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca.

Tommaso Frosini

Tommaso Frosini

Difficilmente un grande elettore repubblicano voterà per un candidato democratico: per questo motivo il nome del presidente è noto il giorno stesso del voto. Ogni Stato elegge un numero diverso di grandi elettori a seconda del numero di abitanti. La California ben 55, mentre il poco popoloso stato del Wyoming solo tre. E questi vengono assegnati ad un partito o all’altro con metodo maggioritario: chi vince lo Stato prende tutti i suoi grandi elettori.

Il sistema di nomination che assegna ai partiti un pacchetto sicuro di voti – continua Frosini – dà certo un effetto distorsivo all’elezione. Nonostante Clinton abbia ottenuto più voti popolari, Trump ha conquistato gli Stati chiave che gli hanno permesso di superare la maggioranza di 279 grandi elettori. E ciò ha fatto disperdere i voti di Clinton ottenuti ampiamente in California o New York”.

Il sistema maggioritario vale in tutti gli Stati, tranne che in Nebraska e in Maine dove vige un proporzionale. Questo può far sorgere diversi difetti di rappresentanza, e non sono pochi in questo senso i precedenti nella storia a stelle e strisce. “Come si è verificato nel 2000, nel corso della sfida tra George W. Bush e Al Gore – ricorda Frosini -. La vittoria di Bush in Florida, nel modo sospetto in cui è avvenuta, gli consentì di superare il successo popolare che il rivale democratico aveva conquistato. E quelle elezioni sono ancora ricordate per le polemiche che scatenarono.

Ma se c’è qualcosa che gli americani considerano intoccabile è il sistema elettorale. “L’esistenza dei grandi elettori mantiene l’idea che il presidente sia eletto complessivamente dai cittadini ed è espressione della natura federale degli Stati Uniti. Un’elezione diretta o proporzionale, tranne che in alcuni contesti, sarebbe impraticabile in un Paese che conta più di 300 milioni di persone”.

Diverso è il discorso se si mette a confronto il voto americano con quello italiano. I sistemi elettorali maggioritari italiani degli ultimi anni (Italicum, Porcellum, Mattarellum) si sono posti l’obiettivo di garantire governabilità a maggioranze politiche deboli. Ma non sempre le cose sono andate così. “Il sistema maggioritario americano – spiega il professore – riproduce la storia, la composizione e l’autonomia politica dei singoli Stati federali. Nonostante le distorsioni che talvolta rischia di provocare nel voto, è un elemento intoccabile. In Italia, invece, i sistemi maggioritari sono sempre stati uno strumento per correggere difetti e imperfezioni della classe dirigente e della società politica”.