Maria Elena Boschi, sottosegretaria di Stato (foto Ansa/Massimo Percossi)

«Se una presidente della Camera chiede che sulla carta intestata sia scritto “la presidente”, è per affermare che la vita ha più di un genere». L’Alma Sabatini degli anni Duemila è Laura Boldrini, che da quando presiede a Montecitorio ha ripreso la battaglia sul linguaggio di genere cominciata dalla saggista romana negli anni Ottanta. «Se io attribuissi ad un uomo una connotazione femminile quell’uomo si ribellerebbe. Allora il rispetto passa anche attraverso la restituzione del genere», ha aggiunto nel 2014.

I contrari – Ma non sono tutti d’accordo con lei. Se è vero che, per esempio, la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli ha recentemente corretto un giornalista che l’aveva chiamata «ministro» in una conferenza stampa, dall’altra parte si trova Susanna Camusso che, appena eletta a capo della Cgil, chiese di farsi chiamare segretario, «anche se il femminile sarebbe d’obbligo nel rispetto della mia cultura e formazione». E nella sua biografia di Twitter si legge: «Sono nata a Milano, ultima di quattro sorelle. Ho una figlia e una lunga militanza nella Cgil che mi ha eletto nel 2010 segretario generale». Una posizione forte l’ha presa anche l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nel dicembre 2016 ha detto proprio in presenza di Valeria Fedeli: «Insisto nel prendermi la libertà di reagire alla trasformazione di parole dignitose della lingua italiana nell’orribile appellativo di ministra o nell’abominevole appellativo di sindaca». Senza freni, come sempre, Vittorio Sgarbi: il critico d’arte è stato deputato per Forza Italia nel 1996 e sindaco di San Severino Marche (1992-1993) e Salemi, in Sicilia (2008-2012). «Boldrini? No, Boldrini è plurale, lei è una e donna», ha ironizzato all’inizio di quest’anno. «Quindi Boldrina. Presidentessa della Camera dei deputati e delle deputate, maschi e femmine. Ma perché allora non Presidenta. Nella sua visione è giusto chiamare un ministro ministra e un sindaco sindaca». E ancora: «Ora cara Boldrina, sia precisa, ci dica chi è lei: lei è la grammatica? Lei stabilisce che non è giusto chiamare sindaco una sindaca e ministro una ministra? Ai ruoli non si applicano i sessi, rimangono tali e quali. Come la persona rimane persona anche quando si riferisce ad un uomo, non diventa persono. E tu sei una zucca vuota, una capra… fortunatamente non un capro».

C’è pure chi ha cambiato idea – Da «preferisco essere chiamata ministro» a «il segno del genere femminile nelle figure professionali potrebbe trasmettere un messaggio di maggiore affermazione delle donne rendendo possibile l’idea che certi ruoli di potere siano concepiti come femminili»: così Maria Elena Boschi, sottosegretaria di Stato, ha mutato il suo pensiero in tre anni. Una parabola simile l’ha avuta Monica Chittò, sindaca di Sesto San Giovanni: «Il linguaggio di genere? Inizialmente non lo sentivo mio, ora ne comprendo maggiormente la validità, perché rafforza la presenza femminile e il suo riconoscimento, più contrastato di quanto non appaia a prima impressione. Preferisco comunque essere chiamata sindaco, ma sono, appunto, sindaco di un Comune che ha molto valorizzato nei suoi atti il linguaggio di genere, ad esempio nella nuova stesura dello Statuto». Cristina Tajani è l’assessora milanese al Commercio dice: «A rigor di linguaggio preferirei assessora, però sono tra quelli che non si scandalizzano se ancora qualcuno mi chiama assessore», ma sul suo sito ufficiale scrive «assessore». E altre due dirette interessate come Virginia Raggi e Chiara Appendino? Situazione curiosa: appena elette, a Radio 1, si divisero. «Chiamatemi sindaco», la romana. «Preferisco sindaca», la torinese. Ma il sito del Comune di Roma chiama Raggi «sindaca», mentre quello piemontese definisce Appendino «sindaco». Il contrario.

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