PUGNI ROSSI

di Valeria Sforzini e Mariavittoria Zaglio

Un tappeto rosso al centro circondato da corde rosse e blu, luci che puntano sulla scena. Un altare che si può osservare a 360 gradi, birra in mano. È uno spettacolo fuori dal comune: si saltella sulle punte, ma non è un balletto. Ci sono i cori di incitamento, le bandiere che sventolano e gli striscioni esposti. Si lotta sul ring, la violenza di strada appartiene a un’epoca passata. Si fanno discorsi politicamente impegnati, ma a quest’ora di notte le piazze sono vuote. Pugni e libertà è tutto questo.

Una serata dedicata allo sport dal basso che nasce nelle palestre popolari e che sotto i riflettori celebra pubblicamente i principi alla base del loro credo: l’antifascismo, l’antisessismo, l’antirazzismo e l’anticapitalismo. Per chi milita in questo contesto non sono solo paroloni. Il presentatore con papillon e camicia lo sottolinea. La data dell’evento, il 14 dicembre, non è stata scelta per caso: «Sono passati 50 anni da quando lo Stato ha attuato una vendetta contro chi lottava». Il riferimento è alla strage di Piazza Fontana e alla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, accusato ingiustamente di essere la mente dietro alla strage. Nel pubblico c’è chi alza il braccio teso con il pugno chiuso e chi applaude. Tutti liberi di entrare, vedere – e magari scommettere 1 euro – su uno dei dodici scontri nel quadrato. A “incrociare i guantoni” sono boxeur provenienti da palestre popolari di tutta Italia. A rappresentare Milano ci pensano la Torricelli, Le sberle, l’Antifa Bull’s Boxe. Ma ci sono anche la Pinelli di Genova, la Chinatown di Padova, la Vincenzo Leone di Napoli. Gli elementi comuni a tutte sono l’autogestione, la gratuità e il più delle volte la permanenza in uno stabile occupato. Le prime sono nate negli anni ‘90, dopo la diffusione delle correnti pacifiste tra i militanti e l’apertura dei centri sociali a iniziative culturali. 

Non contano i soldi, il sesso, l’indirizzo o il lavoro ma la condivisione di alcuni ideali politici, sì. È una serata gelida ma l’emozione dell’incontro fa sudare anche i più tosti. “Macho Free Zone” è la scritta che tappezza entrate e colonne perché a Macao e in tutte le palestre che partecipano alla serata non sono ammessi atteggiamenti di prevaricazione sul più debole.

Nessuno ci deve finire su quel tappeto, quello del ring. I Compagni delle palestre popolari boxano per divertirsi e chi viene a vederli a Macao, l’ex borsa del macello di Milano – oggi spazio occupato e centro culturale a est della città – paga 5 euro per sostenere le spese legali di Vincenzo Vecchi, condannato a 11 anni e 6 mesi per “devastazione e saccheggio” per i fatti avvenuti durante il G8 di Genova e attualmente residente in Francia.

Dietro al “Tempio” – così viene chiamata la sala centrale – c’è il backstage. È lì che si scarica la tensione prima degli incontri. Gli “allenatori” danno i loro ultimi consigli a chi si batterà, massaggiano i muscoli per prepararli all’ingresso sul ring, caricano, motivano. Le combattenti si fissano i capelli con le mollette per fare in modo che non scappino da sotto al caschetto. Ognuno indossa le proprie fasce come se stesse compiendo un rito. Nell’aria si diffonde un odore balsamico di olio alla canfora misto a erba, mentre murales alle pareti e le centinaia di adesivi che ricoprono le porte dei bagni rivelano l’anima ribelle del contesto. L’adrenalina si scarica prendendo a pugni l’aria e scambiando baci appassionati.

I protagonisti sono ragazzi e ragazze al loro secondo o terzo incontro di boxe, non professionisti. Studenti universitari, lavoratori, militanti dei centri sociali che hanno scelto di non formarsi in sedi canoniche o di tesserarsi alla federazione pugilistica italiana, ma di allenarsi in ambienti dove l’obiettivo è costruire uno spazio comune, non essere il più forte. 

Si sente una canzone di Bob Marley, un pezzo hardcore, Twist and Shout degli Isley Brothers e poi un gong: gender free anche nella musica. «Tieni la guardia alta, tienila su» è l’incitamento difensivo agli angoli del ring. La disciplina e il rispetto dell’avversario sono i due elementi base che regolano il match e che l’arbitro segue ad ogni gancio, attento che il caschetto protettivo non si sposti. Non ci sono polemiche, nessun fischio. Alla fine di ogni incontro c’è un abbraccio, una capriola, un sorriso con il paradenti.

La militanza ieri e oggi

Oggi la militanza non ha nulla a che vedere con i movimenti del ’68 o del ’77, gli studi più recenti la definiscono un tipo di “attivismo ricreativo”. Se allora si voleva fare la rivoluzione e gli scontri erano all’ordine del giorno, nel post G8 per militare contano molto la partecipazione e la creazione di iniziative controculturali. «Le palestre diventano una pratica di attivismo politico e di partecipazione civica a sé stante – spiega Lorenzo Pedrini, dottorato in Sociologia all’Università Bicocca di Milano – sono aperte al pubblico, accessibili e con lo scopo di far sì che chi partecipa diventi a sua volta produttore dello stesso servizio che consuma». Anche se la nascita delle palestre popolari si innesta sul filone dell’antagonismo militante, ora il contesto è cambiato. «C’è il centro sociale, c’è l’iniziativa isolata, ci sono le cooperative, le società di mutuo soccorso. La galassia è più frammentata – continua Pedrini – Negli anni ’90, con la nascita del movimento No-Global c’è una svolta welfarista per sottrarre spazi di autonomia al capitalismo. C’è un’apertura».

Lorenzo Pedrini nel suo studio all’Università Bicocca

Il contesto in cui si innestano è fondamentale per la nascita delle palestre popolari. La Torricelli è un caso emblematico: il quartiere Ticinese, dagli anni ’70 rappresenta infatti un importante punto di riferimento per l’attivismo politico. L’occupazione della palazzina in San Gottardo che nel 2007 è diventata la sede della palestra Torricelli risale al 1976, parallelamente a quella dello stabile di via Conchetta 18 che ancora oggi è uno dei centri sociali più attivi di Milano.  Il gruppo femminista delle “Sberle” si allena all’interno di una palestra di un ex liceo classico ad Affori, a nord di Milano, oggi abbandonato e occupato dal collettivo Ri-Make. La “Antifa Bull’s Boxe”si trova in via Edolo, a poca distanza dalla Stazione Centrale, ma fino a un anno fa era in via Val Bologna. Nomade come il centro sociale Lambretta, di cui rappresenta una costola e che prima ancora occupava le villette Aler di piazza Ferravilla. A ogni sgombero i “Compagni” boxeur la smontano e la rimontano, facendola vivere.

Ezio Rovida è un ex katanga. Così si chiamavano i ragazzi che facevano parte del Movimento Studentesco della Statale di Milano nato nel 1968 e che avevano strutturato un sistema difensivo per reagire agli scontri di piazza del tempo.

«Allora questo tipo di allenamento, come la boxe, non avrebbe avuto senso. Non servivano le arti marziali ma un gruppo compatto che partisse alla carica in risposta a un segnale»

Le palestre popolari a Milano

“Ho scelto di venire in questa palestra perchè così ne prendevo di meno”  

[Mahmood, Antifa Bull’s Box]

“Ho sentito parlare di questa palestra femminista dove si praticava boxe e per la prima volta non mi sono sentita a disagio”  

[Martina, Le Sberle]

“Ci sono proprio capitato per caso. Un ragazzo rifugiato a cui insegno italiano mi ha detto che faceva boxe nella palestra popolare Torricelli. Così ho pensato: grande, lo faccio anche io”

[Antonello, Torricelli]

La storica

Ufficialmente la Torricelli è la prima palestra popolare di Milano, fondata dal collettivo Raf (Resistenza Anti Fascista) dopo la morte di Davide Cesare – più noto come come Dax – nel 1992. E’ stato ucciso da un gruppo di simpatizzanti di estrema destra fuori da un pub. Pareti gialle e verdi, Che Guevara al posto del crocifisso veglia sui sacchi sospesi. Non c’è un cartello che la segnali fuori dal palazzo, per entrare, bisogna conoscere qualcuno. “Altrimenti provate a tirare un calcio alla base del portone – consigliano – di solito funziona”. Anche il citofono all’interno penzola dalla parete, indicato solo da un pezzo di scotch. “È la storica”, così la chiamano quelli delle altre palestre popolari. Un punto di riferimento dell’autogestione e sempre a stretto contatto con i membri del Collettivo Cappa. Il piano interrato è stato scavato, ripulito e imbiancato dagli stessi Compagni. Quella che negli anni ‘80 era la sede di un ferramenta, ora ospita un ring che i boxeur usano per allenarsi prima di “Pugni e Libertà”, che la Torricelli sostiene dalla prima edizione, nel 2015. “Ogni anno, ad una settimana dal grande evento ci arriva una diffida dalla Fpi (la Federazione Pugilistica Italiana) perchè quello che facciamo noi non è riconosciuto dal Coni, si tratta di rissa clandestina” dice Fabio Pennetta, uno degli “anziani” della palestra, autore di boxe populaire pugni rosso sangue, una narrativa dedicata alle palestre. La boxe però non è l’unico corso apprezzato alla Torricelli: autodifesa femminista il martedì è talmente frequentato che non c’è più spazio e visto il numero di richieste da quest’anno c’è anche Rockabilly. Dopo le due ore di allenamento, ci si cambia tutti insieme. Lo sforzo richiesto dagli esercizi si vede dalle magliette intrise di sudore. Uno scambio di battute e ci si accorda su quando fare l’assemblea e bere qualcosa insieme al Cox 18, il centro sociale a pochi minuti dalla palestra.

La Torricelli ha un manifesto: “Crediamo nel valore politico e sociale dello sport dal basso, praticato collettivamente senza distinzione di età, provenienza, sesso, classe e indipendente dal regime delle disponibilità economiche. La palestra popolare non fornisce un servizio: è un luogo di responsabilizzazione, condivisione dei saperi ed emancipazione, senza gerarchie e al di fuori delle logiche di dominio”

La nomade

Si legge ancora l’insegna: “Gomme” da via Edolo 10. Ora però si intravedono solo le macchie di grasso nero agli angoli delle pareti. Proprietà della famiglia Moratti, l’ex autofficina polverosa è una palestra dove si fa boxe due volte a settimana, danza afro la domenica e assemblee del Lambretta quando serve. Questa è la terza sede della Antifa, perchè la palestra segue il Lambretta dopo ogni sgombero, l’ultimo nel luglio 2018. «Abbiamo cambiato approccio, facciamo meno feste e più incontri, speriamo di rimanere qui per più tempo», dice Vince mentre sposta dal centro della palestra un carretto da manifestazioni che hanno lasciato parcheggiato lì, tra i guantoni e le bandiere NO TAV. Tra i sacchi che oscillano dopo ogni colpo spunta un foglio che riporta la citazione del Manifesto di rivolta femminista del 1970: “Il femminismo è stato il primo momento politico di critica storica alla famiglia e alla società”, mentre sulle pareti dei cartelloni scritti a mano spiegano lo sviluppo di una società capitalistica. “Birretta?” è la domanda che rimbalza a fine allenamento mentre Mahmood, 17 anni, continua a scambiare colpi saltellando davanti allo specchio. Tutti possono entrare e partecipare, esclusi i fascisti e quelli che credono di essere i più forti. Chi ci ha provato, è stato mandato via. 

La femminista

All’ingresso dell’ex liceo classico Omero nel quartiere Comasina, proprio sotto all’insegna principale, sventola un drappo rosa. Sulla parete dell’edificio, il murale di Marielle Franco, l’attivista brasiliana che si batteva per i diritti umani uccisa in un agguato il 14 marzo 2018 da quattro pallottole che facevano parte di una partita della polizia. Ad oggi non si è ancora chiarito il mandante dell’omicidio. Il suo viso accoglie chi entra nella sede del collettivo Ri-Make, che da un anno ospita il gruppo femminista di boxe che ha preso il nome di “Le Sberle”. Gli allenamenti si tengono in quella che prima era la palestra dell’istituto. Tra corde per saltare, guantoni, sacchi e spalliere compaiono banchi, sedie, un palco e una libreria con volumi di storia sovietica. In pieno stile popolare, non c’è un istruttore e non c’è un capo. Sara Blancardi arriva all’allenamento trafelata, indossa i suoi pantaloncini in seta da Thai Boxe (“sono un regalo a cui tengo molto”), si lega i capelli, detta i tempi degli incontri e fa partire la musica che dà la carica.  Il gruppo è vario: ci sono studentesse universitarie, lavoratrici, volontarie del collettivo. Ma ad allenarsi sotto il simbolo delle Sberle, una Madonna con guantoni da boxe, non sono solo donne. «Parliamo sempre al femminile plurale», dicono alla fine del riscaldamento. Il clima non è serrato, ma si lavora sodo. Sono tante le nuove reclute, che vengono soprattutto dal quartiere a nord di Milano. Chi è più esperto insegna a chi non ha mai praticato a indossare le fasce nel modo corretto e i movimenti di base, dal “jab” al “gancio”. Quando uno sport considerato maschile diventa femminista, gli atteggiamenti da macho perdono ancor di più il loro significato.  

Il CAPPA

La nascita delle palestre nel periodo appena successivo al G8 di Genova e la loro diretta discendenza dai movimenti di piazza e dalla militanza degli anni ‘70 ha lasciato i suoi strascichi. Accanto a principi di gratuità, diritto allo sport e difesa del più debole, c’è ancora una chiusura all’esterno.  Il Collettivo Autonomo delle Palestre Popolari Autogestite “CAPPA” non ha un vero e proprio ruolo di gestione. Così come avviene all’interno degli spazi autogestiti, la struttura è orizzontale e non sono previsti capi. Il collettivo ha più uno scopo di coordinamento. Gli esponenti delle palestre che ne fanno parte si accordano sulle date in cui organizzare gli eventi, in modo da non sovrapporsi e stabiliscono dei criteri generali da rispettare per i combattimenti. Non c’è un vero e proprio manifesto: i principi guida comuni sono noti a tutti per un tacito accordo tra i membri, che esprimono le proprie posizioni senza lasciare dubbi. Se il “CAPPA” è chiaro sul ruolo che l’inclusione e l’apertura hanno nelle palestre, è altrettanto chiaro su chi debba restarne fuori. Se per allenarsi non serve dimostrare nulla, né essere impegnato in politica (far parte di questi ambienti è di per sé una militanza), le domande non sono bene accette. “Qui sbirri, fasci e giornalisti non possono entrare”.