La corsa interrotta verso Tokyo
Una triatleta e l'Olimpiade rinviata: una qualificazione da ricostruire e un anno da ripensare. Ma, soprattutto, un'occasione per recuperare fiato, tempo e serenitàdi Bernardo Cianfrocca ed Elisa Cornegliani
«Il rinvio delle Olimpiadi è stato un sospiro di sollievo». Anna Maria Mazzetti, triatleta, ne è convinta. Nonostante abbia tanto da perdere: nel ranking di qualificazione olimpica era la migliore azzurra in classifica e nel 2019 aveva raggiunto il nono posto nel Mondiale, suo record personale. Se c’è una cosa che però ha imparato nella sua carriera, è che, prima dell’atleta, viene sempre la persona: «Saremmo stati troppo esposti e le nostre famiglie si sarebbero preoccupate. Perché correre dei pericoli simili? Adesso conta la salute». Raggiungere risultati senza un equilibrio tra queste due componenti è impossibile. Anna Maria è consapevole di come sia difficile fare in modo che i risultati sportivi non incidano sul resto: «C’è stato un periodo in cui mi sono sentita in difficoltà. Mi sono rivolta a una psicologa per fare in modo che lo sport non fosse predominante su tutto. L’ Anna atleta non doveva avere più ripercussioni sull’Anna persona». Aspettare Tokyo allora non costa così tanto. E costa ancora meno se da mesi è in corso una pandemia.
Un anno poi non è un periodo così esteso. Soprattutto quando si è abituati a fare i conti con attese più lunghe. Mazzetti da tempo scandisce la sua vita ogni quattro anni. Per lei le Olimpiadi sono «L’appuntamento della vita». Per una volta, 12 mesi in più cosa cambiano? Bisogna soltanto prolungare una routine già nota: allenamenti, trasferte, gare. Ma un anno può anche essere eterno. Può pesare molto sulla testa, sulle gambe e sulla voglia di un’atleta che, a quasi 32 anni, sta forse riservando qualche pensiero lontano a quello che farà dopo la sua carriera. Altri 365 giorni con il rischio di piccoli e gravi infortuni, l’eventualità di non trovare la forma migliore, la preoccupazione per avversarie più giovani e agguerrite che non vogliono perdere l’occasione per il loro primo appuntamento della vita.
Le Olimpiadi sono una gara. Mettono in palio una medaglia, ma possono trasformarsi in altro. La legittimazione a quattro anni di scelte prese per un unico obiettivo: raggiungere il massimo possibile. Non per forza un oro. Per quanto si possa essere forti, vincere non può mai essere un obbligo, soprattutto nella manifestazione fondata da de Coubertin. Però, a furia di nuotare, correre e andare in bicicletta, come il triathlon richiede, ci si può stancare. Andare sotto le aspettative con il rischio di deludere sé stessi e rendersi conto di aver buttato degli anni. Meglio allora presentarsi nella miglior condizione possibile, fisica e mentale.
Per questo il rinvio delle Olimpiadi non è stato accolto con isteria, ma da un sospiro di sollievo. Con buona pace del ranking: «La nostra Nazionale avrebbe avuto diritto a tre rappresentanti, ma al di là della classifica la scelta spetta sempre agli allenatori», specifica. Certo, ma la speranza di esserci a Tokyo era quantomeno legittima. Invece bisogna ancora aspettare, ma va bene così.


E ora?
In passato i Giochi non sono mai stati rinviati. Cancellati sì, tre volte, nel 1916, nel 1940 e nel 1944. C’erano la Prima e la Seconda guerra mondiale. Oggi, invece, c’è una minaccia invisibile che ha cambiato la quotidianità di tutto il mondo, il coronavirus. «Allenarsi era diventato impossibile. Le piscine e le palestre sono chiuse, non possiamo uscire a correre e anche andare in bici stava diventando complesso». Il rischio era di arrivare a Tokyo «del tutto impreparati». E pazienza se la decisione del Comitato Olimpico Internazionale (CIO) è arrivata solo dopo una pioggia di temporeggiamenti e rinvii.
Mazzetti è in Nazionale dal 2002, dodicesima nel ranking mondiale, nona miglior atleta del 2019. Corre, nuota e pedala tutti i giorni da quando ha otto anni. Ha cominciato nel paesino in provincia di Milano in cui è cresciuta, Cesate, dove si allena tuttora. Le Olimpiadi non sono un capitolo nuovo. Ha già partecipato ai Giochi di Londra 2012 e di Rio 2016: «Hanno un fascino unico, organizziamo il lavoro in cicli di quattro anni».
Ora però bisogna ripensare a tante cose: allenamenti e gare da riprogrammare. Si dovrà capire come funzioneranno i criteri di qualificazione, come si svolgerà la selezione interna alla Nazionale. La concorrenza non manca: tante giovani atlete con un anno in più a disposizione per migliorare e farsi trovare pronte. Nel lungo periodo, c’è un anno da riorganizzare. Più a breve termine, giorni liberi da sfruttare: «Cerco di rilassarmi e di darmi il tempo necessario per capire cosa sta succedendo», spiega. «Voglio crearmi una routine quotidiana, da fare a casa. Non è semplice, ma non voglio fretta: non sappiamo ancora quando ripartiranno tutte le attività, esagerare con gli allenamenti sarebbe inutile e frustrante. Arriverei stanca alla ripresa e poco serena a livello mentale».
Le Olimpiadi cancellate nella storia. Mai nessuna era stata rinviata
Lo sapevi?
Una delle tre Olimpiadi cancellate si sarebbe dovuta svolgere sempre a Tokyo. Era l’edizione del 1940. Il Giappone rinunciò in seguito allo scoppio della guerra contro la Cina, preambolo della Seconda guerra mondiale
Lo stesso pensa Massimo Brigo, uno degli allenatori dello staff di Mazzetti: «Questo è il momento di prendere le cose con calma. Ora Anna ha soprattutto bisogno di concentrarsi sull’aspetto psicologico: il rinvio di un’Olimpiade è un fatto enorme, può avere un forte impatto a livello mentale». Per le prossime settimane, si prevedono esercizi casalinghi indicati dalla preparatrice atletica della federazione. Le previsioni a lungo termine, invece, sono quasi impossibili da fare: «È un periodo incerto. Molto dipenderà dalla International Triathlon Union (Itu) e dalle modifiche che apporterà al meccanismo di qualificazione olimpica. Al momento il ranking è a nostro favore, ma non è detto che la situazione rimanga così». Una volta che saranno comunicati gli eventuali nuovi criteri di selezione, la parola spetterà alla Federazione Italiana: «Ci sono due scenari possibili. Se la qualificazione olimpica non dovesse essere garantita, ci prepareremo sia per quella che, in caso di successo, per l’Olimpiade stessa. Se invece la ottenessimo subito, dovremmo trovare degli step intermedi di verifica, ma la preparazione sarà finalizzata solo verso Tokyo». Le due possibilità, prosegue Massimo, prevedono un metodo di lavoro molto diverso: «Nel primo caso si tratta di arrivare al meglio per le gare che portano alla qualificazione e di mantenere poi la condizione fino ai Giochi. Nel secondo, invece, si avrebbe più tempo a disposizione per un unico obiettivo».
Il rinvio di un anno rende Tokyo ancora possibile. Fossero stati due anni, sarebbe stato «molto più complicato, non so cosa avrei fatto», ammette Anna Maria. Sarà una strada più lunga del previsto, ma comunque percorribile. E se allenarsi in casa è difficile, ci pensa Skype a dare uno stimolo in più: «Sto partecipando alle mie prime sessioni sportive in video, collettive. Mi alleno con alcuni amici nuotatori: insieme troviamo la motivazione».
Le triatlete italiane che avrebbero partecipato alle Olimpiadi con il ranking attuale
Funziona così
Nel ranking olimpico le atlete raccolgono punti per la propria Nazionale. A seconda dei loro risultati, si determina il numero di rappresentanti per ogni Paese. Al momento delle convocazioni però, gli allenatori non sono obbligati a tenere conto delle posizioni del ranking per decidere chi portare ai Giochi
Le fatiche del Triathlon
Correre, pedalare, nuotare. Tre attività che rimandano a un’idea ancestrale di sport, come prova individuale, solitaria, quasi eroica. Nessuna condivisione, se non lo strano sollievo della compagnia degli avversari. Il traguardo come unico obiettivo. Raggiungibile senza punteggi o tempi prestabiliti, ma solo in base alla misura dei propri sforzi. Sembra quasi assurdo pensare che qualcuno decida di triplicare la propria fatica, di vedere in un traguardo non una fine, ma l’inizio di una nuova prova.
Nato sul finire degli anni Settanta, il triathlon è disciplina olimpica da Sydney 2000: 1500 metri di nuoto, 40 chilometri in bicicletta e 10 di corsa. Queste le distanze della prova più diffusa, utilizzata anche per le gare degli Europei, per la maggior parte degli impegni di Coppa del Mondo e delle tappe itineranti delle ITU World Series, i Mondiali di triathlon in programma ogni anno. Ma le possibilità di questo sport sono moltissime e non si esauriscono solo nella distanza olimpica. Mazzetti è stata campionessa italiana per otto volte consecutive (dal 2008 al 2016) nella categoria Sprint, una specialità lunga la metà della gara principale. E oltre al triathlon “Olimpico”, c’è la possibilità di misurarsi con il “Supersprint”, il “Medio”, il “Lungo” e l’“Ironman”, la competizione più estrema. Una gara lunga 226 chilometri, la cui parte di corsa ha la lunghezza di una maratona (42.195 km).
Sembra una follia. Eppure leggenda vuole che, nel 1977, il triathlon nacque alle Hawaii per una scommessa tra amici. Volevano stabilire quale fosse la più impegnativa di tre prove – nuoto, ciclismo e corsa – disputate sulle distanze che oggi compongono l’Ironman. Così le provarono tutte. Sono tantissimi quelli che si avvicinano al mondo del triathlon. Non solo chi lo trasforma nella propria professione, ma anche amatori e principianti che ne sono affascinati sia per la sua dimensione salutista, che per il fascino del superare i propri limiti. L’esempio più noto è quello di Alex Zanardi: lo scorso anno, in una gara di Ironman in Emilia Romagna, ha stabilito il record paralimpico della disciplina, arrivando ottavo su oltre 3mila partecipanti, per la maggior parte normodotati. Ma anche la stagione del triathlon si è subito piegata alla minaccia del Covid-19: «I primi tre appuntamenti di World Series sono stati annullati, chissà se e quando riprenderemo», commenta Mazzetti. Non prima del 28 giugno, stando alle decisioni prese sia dalla Federazione italiana che da quella internazionale.


Fuga, vana, dal coronavirus
Lo spostamento della XXXII edizione delle Olimpiadi, inizialmente prevista a Tokyo tra il 24 luglio e il 9 agosto 2020 e ora slittata tra il 23 luglio e l’8 agosto 2021, si è rivelato una necessità. Per qualche mese, sia il CIO che le autorità giapponesi hanno provato a procrastinare una decisione ormai inevitabile. Lo scoppio dell’epidemia su scala mondiale aveva però portato alcuni Paesi e federazioni a minacciare di non mandare i loro atleti nel caso in cui i Giochi non fossero stati rinviati. Oltre all’aumento globale di decessi e contagi, sulla cui fine non c’è certezza, ha pesato la precarietà con cui molti sportivi sono costretti ad allenarsi. Con strutture e impianti chiusi per i provvedimenti dei governi, eventi annullati in ogni angolo del mondo e quarantene obbligate nel caso di trasferimento da uno Stato all’altro.
Gli atleti italiani sono stati i primi, eccezion fatta per quelli cinesi, a vivere questi disagi. Anna Maria ha assistito da lontano alla nascita del problema: «Ero alle Canarie, dove stavamo finendo la preparazione invernale iniziata a dicembre. Ci serviva un posto con un clima favorevole per poter svolgere durante il giorno gli allenamenti di tutte e tre le discipline. Sarei dovuta tornare il lunedì successivo allo scoppio del primo caso di Codogno (venerdì 21 febbraio, ndr), ma abbiamo deciso di prolungare il soggiorno. Isolarmi dal caos, anche mentalmente, era la soluzione migliore».
In Italia sarebbe stata appena una settimana, prima di trasferirsi ad Abu Dhabi e in Australia per le gare d’esordio dell’anno. Un rischio che non valeva più la pena correre. «Trasferirmi dalle Canarie sarebbe stato più semplice. Dovevo andare in Paesi più rigidi con i visti e ciò che stava succedendo in Italia non mi avrebbe aiutato». Il coronavirus però non è rimasto un’emergenza solo italiana: «Ad Abu Dhabi, pochi giorni prima della mia partenza, è scoppiato il problema quando sono stati trovati positivi dei ciclisti durante l’UAE Tour. Le squadre erano negli stessi alberghi che avrebbero ospitato anche noi. La Itu si è attivata per la nostra sicurezza e la manifestazione è stata rinviata a data da destinarsi. Ma ora inserirla in calendario è quasi impossibile».
Altro cambio di rotta. La rinuncia ad Abu Dhabi ha comportato anche quella per l’Australia. «Avevo fissato due impegni per riprendere il ritmo gara, uno di World Series e un altro di Coppa del Mondo. La gara in Australia era meno importante e la tappa di Abu Dhabi era fondamentale per spezzare il viaggio e renderlo meno pesante. Non avendo la necessità di guadagnare punti per il ranking olimpico, ho preferito rinunciare». Così Anna Maria è dovuta tornare in Italia con due settimane di anticipo.
4 marzo: “Le Olimpiadi non saranno né cancellate, né posticipate”
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Thomas Bach22 marzo – “Le vite umane hanno la precedenza su tutto, Giochi inclusi. Entro un mese decideremo cosa fare”. Nel frattempo, la fiamma olimpica è arrivata in Giappone da due giorni
Thomas BachIl ritorno forzato è stato sfruttato per allenarsi, ma in una situazione sempre più precaria: «Per una settimana sono riuscita ad allenarmi senza troppi problemi. Temevo per la parte di nuoto, ma una piscina ci consentiva di allenarci al massimo in dieci e senza l’utilizzo degli spogliatoi». I suoi piani sono stati però complicati dall’aumento esponenziale di morti e contagiati e dalla decisione del governo di chiudere le strutture sportive e di limitare gli spostamenti. «Ormai, sebbene fosse un mio diritto, mi sentivo in colpa anche ad allenarmi all’aperto per corsa e bici».
La voglia dell’atleta si è così scontrata con la coscienza della cittadina. Nonostante potesse essere giustificata dalle “comprovate esigenze lavorative”, il suo ruolo istituzionale (membro del gruppo sportivo delle Fiamme Oro della Polizia) le ha imposto cautela. «Da poliziotta, ho voluto sempre rispettare le regole, è un mio dovere essere d’esempio e non forzare la mano. Dopotutto, lo sport è qualcosa a cui si può rinunciare». Appurate le difficoltà di allenarsi a Milano, ha maturato, in accordo con staff e federazione, la decisione di andare all’estero.
La scelta è stata Clermont, in Florida. «Ho raggiunto altri compagni che avevano programmato da tempo un collegiale lì. Con un clima ideale e i nostri coach federali, avrei potuto preparare per il 18 aprile una gara alle Bermuda. La Itu e il Cio ancora non avevano deciso di annullare tutto». Anche questa, un’intenzione rimasta a metà. Lo stato di pandemia dichiarato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) l’ha tenuta negli Usa una sola settimana: «Così le assicurazioni non ci coprono più e la federazione ci ha richiamato in Italia». E poi basta, a casa, dove si deve stare in attesa che tutto passi. Il Cio lo ha capito, seppur in ritardo rispetto agli atleti.
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Thomas Bach“Il mio corpo aveva
bisogno di fermarsi”
C’è vita oltre lo sport
Essersi preparata a un evento sportivo a lungo incerto è stato quasi surreale, «Pesante. Ma mi ripeto che, in un certo senso, è solo sport: nella mia vita c’è anche molto altro». Una consapevolezza frutto di una conquista non immediata: «Sto affrontando la cosa con la mia psicologa. Da qualche tempo mi aiuta a vivere meglio». Un percorso, questo, cominciato all’inizio del 2018: «Stavo per compiere 30 anni e mi chiedevo come fare per rendere il triathlon solo un lavoro, non la vita intera». Anna si prende qualche secondo in più per soppesare le parole, consapevole della delicatezza di un periodo vissuto con più fatica. Essere un’atleta, ricorda, è difficile: gli allenatori chiedono il massimo, le rinunce sono inevitabili, i controlli sul proprio stile di vita, dall’alimentazione al fisico, estenuanti. «Quando hai 20 anni non ci pensi: non è un problema dedicare ogni minuto della tua giornata allo sport. Dopo, col tempo, capisci che c’è anche altro. E non vuoi che rimanga fuori».
Nel 2018 aveva già una carriera avviata, con due Olimpiadi alle spalle. Forse per questo si sentiva stravolta. Da alcuni esami del sangue capì che il suo organismo aveva bisogno di fermarsi. Nonostante i tentativi di andare avanti come se nulla stesse accadendo, la fatica aumentava e i suoi sforzi passavano inosservati. Le dicevano che avrebbe dovuto dare di più. «Mi sentivo una “lazzarona”, perché sostenevano che il mio impegno non era abbastanza. Ma io ci mettevo tutta me stessa. Non c’era niente da fare, avevo bisogno di una pausa: per un mese ho smesso di allenarmi e mi sono dedicata solo agli incontri con la psicologa. Con lei ho capito che io ce la mettevo tutta, ma il mio fisico era stanco e dovevo ascoltarlo». Ricominciò a muoversi per il solo piacere di farlo, tralasciando gli obiettivi agonistici. Solo così riuscì a ritrovare la forma. Pronta a ri-prepararsi con la vecchia routine.

“Ora lo so. Non sono più solo Anna atleta, ma anche Anna persona, fidanzata, figlia, amica”

Gli allenamenti sono divisi in cicli. La stagione invernale è dedicata ai grandi carichi di lavoro, mentre il periodo estivo è concentrato su esercizi precisi, ad alta intensità, con più qualità e meno frequenti: il fisico ha bisogno di recuperare tra una sessione e l’altra. «In gergo tecnico diciamo “scaricare”, lo si fa nei periodi prima delle gare», spiega.
«Ecco una cosa che ora so, grazie agli incontri con Paola (la psicologa, ndr): non sono solo Anna triatleta, ma anche Anna figlia, fidanzata, amica. Per quanto mi riguarda, il modo migliore per vivere lo sport è essere in equilibrio con ogni parte di me». A quel punto, rimettersi al lavoro per arrivare a Tokyo è stato semplice: «Lo dovevo al triathlon, per tutto quello che mi ha dato. Ci tenevo che fosse una bella storia da raccontare a figli e nipoti, non volevo chiudere negativamente il mio rapporto con lo sport».
Quando tutto è cominciato
La risposta alla domanda più classica di tutte – «come hai cominciato?» – è altrettanto classica: «Per caso».
«Quando avevo 8 anni, la mia migliore amica faceva gare di sci di fondo. Durante la settimana doveva allenarsi a correre, ma non voleva andare al campo sportivo da sola. Mi chiese di andare con lei». E così Anna cominciò a correre: dopo qualche sessione l’allenatore le chiese di portarsi una bici. E così iniziò anche a pedalare. Infine le chiese pure se sapeva nuotare. Anna rispose di sì e mise tutto insieme: il risultato fu il triathlon. Abbandonò così la danza classica, il suo primo sport: «Mi divertivo molto di più con la corsa». Subito i primi passi nella società del suo paesino, Cesate. Tra le medie e le superiori era la migliore della regione. Per questo non diede ascolto alle lusinghe di qualche squadra di atletica, che l’avrebbe voluta concentrata solo nel correre. Fino al 2004 però tutto era solo un gioco, l’agonismo lontano.
Si avvicinò dopo, fra il 2004 e il 2006. E si concretizzò nel 2008, quando vinse il concorso in Polizia ed entrò a far parte delle Fiamme Oro. A quel punto, il triathlon conosciuto per caso divenne il suo lavoro. «Stavo per lasciare, per dare la priorità all’università. Poi è uscito il concorso, c’era un posto per il mio sport e l’ho vinto. Se non ce l’avessi fatta avrei dovuto smettere». Sono concorsi specifici, spiega: vengono richiesti dalle federazioni quando emerge un atleta particolarmente talentuoso che merita di essere aiutato a portare avanti la propria carriera. «Come molti atleti di altre discipline sportive (atletica, nuoto, scherma, judo, canottaggio ecc), sono davvero grata alle Fiamme Oro per l’opportunità che ci danno. Ci permettono di trasformare la nostra passione in lavoro, garantendoci un futuro. Grazie a loro possiamo rappresentare l’Italia nel mondo». E quale occasione migliore per rappresentare il proprio Paese se non le Olimpiadi?


Storie olimpiche
«Prima di Londra ho dovuto lasciare l’università perché non riuscivo a conciliare studio e triathlon. In quel periodo ho visto i miei amici coetanei laurearsi: quando sono arrivata allo Stadio Olimpico, nel luglio del 2012, ho pensato che anche io stavo festeggiando la mia laurea, lì, in quel momento». Se Tokyo è una meta incerta, i Giochi di Londra e quelli di Rio sono memorie olimpiche delineate con precisione.
«Una figata», la prima, naturale esclamazione per ricordarli. Alza la voce e le brillano gli occhi, il suo entusiasmo è facilmente percepibile. Londra è il traguardo di un percorso lungo quasi vent’anni, raggiunto con lo stesso allenatore che la seguiva da quando era bambina. Nessun rammarico per la caduta dalla bici durante la sua gara: riuscì a rialzarsi e a completare il suo percorso. Di quelle due settimane inglesi rimangono il villaggio olimpico, la tuta della nazionale, la possibilità – una fortuna – di restare fino alla fine e di assistere alle gare degli altri atleti, partecipando anche alla cerimonia di chiusura. Soprattutto restano gli incontri con grandi campioni: «La cosa che più mi ha emozionata è stata vedere come anche loro, medagliati e famosi, mi rispettassero. Ricordo il pugile Roberto Cammarelle e Valentina Vezzali, portabandiera quell’anno. Mi dicevano: “Voi del triathlon vi fate veramente un bel mazzo”».
A Rio la musica cambiò un po’. La gara di Anna si svolse il penultimo giorno e né lei né gli altri triatleti furono in grado di godersi le altre competizioni o l’atmosfera dei Giochi. L’organizzazione, inoltre, non era quella di Londra, spostarsi da una sede all’altra risultava difficile e non sempre sicuro. Ma anche quelli brasiliani sono ricordi belli: «Ho potuto accompagnare il mio fidanzato all’interno del villaggio, per un giorno. Avere la possibilità di fargli vivere questa esperienza per me ha significato molto».
Ora la sua carriera deve essere prolungata di almeno un anno. Anna Maria non ha ancora deciso se Tokyo possa essere la sua ultima corsa, l’ultima bracciata e l’ultima pedalata. Comunque sarà, è giusto provare ad arrivarci. Lo deve ai chilometri che ha percorso e che l’hanno portata a rialzarsi quando voleva lasciare. Lo deve a sé stessa, per il coraggio di fermarsi quando tutti le dicevano di continuare a correre. Adesso, ancora una volta, è necessario fermarsi. Ma lo sarà anche ripartire, sempre verso Tokyo. Una volta lì, potrà tirare un altro sospiro di sollievo.
(Per i contenuti fotografici si ringrazia FITRI – Federazione Italiana Triathlon e la famiglia Mazzetti)

