«La nostra generazione di ricercatori è stata umiliata ed esasperata da una progressiva riduzione delle prospettive. il risultato è la profonda frustrazione e rabbia che traspare da questi commenti e che ci porta a vedere un nemico in chi non solo nemico non è, ma sta affondando sulla stessa barca». Queste sono le parole di Alessia Ciarrocchi (Azienda Unitaria Sanitaria Locale di Reggio Emilia) a seguito delle critiche ricevute dopo un suo passaggio a La 7. «Il senso della mia riposta ingenua era che in un mondo normale spostarsi da un laboratorio all’altro può e deve essere visto principalmente come l’opportunità di mettersi in gioco e di guadagnare nuove esperienze».

La vicenda – Il 20 novembre, la dottoressa Ciarrocchi ha sostenuto il valore della scienza libera e democratica in un monologo a Propaganda Live, ottenendo un plauso generale. Alla fine dell’intervento, il conduttore Diego-Zoro ha rivolto alcune domande a Ciarrocchi riguardo ai 20 scienziati che lavorano nel suo laboratorio. Zoro ha chiesto tra l’altro se i collaboratori della dottoressa potranno rimanere a lungo nel posto in cui operano. La risposta è stata negativa: «Il nostro è un lavoro nomade per definizione perché il percorso scientifico è fatto di esperienze che si devono esaurire per porre nuovi obiettivi. Il rapporto tra un capolaboratorio e le persone che lavorano con lui è fisiologicamente un percorso che si interrompe. La precarietà nella ricerca viene spesso visto come un fenomeno negativo, ma in realtà è in un certo senso una forza dentro il nostro mondo. Noi ci spostiamo, non perché il contratto è finito (quasi mai), ma per cercare qualcosa di meglio», aggiungendo che spesso muoversi si tratta di una scelta.

Le reazioni – Queste parole non sono state accolte bene dagli accademici, che a più riprese hanno pubblicato critiche sui loro profili social. L’Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani (Adi) ha espresso contrarietà alle parole di Ciarrocchi attraverso una lettera aperta indirizzata a Zoro e a Propaganda Live. La tesi di Adi è che a fronte degli ultimi dati sul precariato in università è falso dire che il “nomadismo” si tratti di una scelta. Lo dimostra il fatto che i ricercatori ai primi stadi della carriera rimasti senza contratto per più di un anno siano il 27% per le aree scientifiche. Si sale al 33% per le aree umanistiche, giuridiche e per matematica e informatica.  Infine, secondo il segretario dell’Adi Luca Dell’Atti (Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”) la ricerca ha una vocazione internazionalista e trasferirsi all’estero può essere un valore aggiunto per il ricercatore. Tuttavia, in un sistema chiuso e sottofinanziato come quello italiano, non si tratterebbe più di una decisione libera.

La replica – «Sono rimasta estremamente amareggiata dall’eco negativa che è seguita al mio passaggio a Propaganda Live nell’ambito della comunità scientifica», commenta la dottoressa Ciarrocchi, la cui replica non appare così distante dalle posizioni espresse da Adi. Anche Ciarrocchi a 45 anni è in scadenza di contratto. Afferma di avere poche possibilità di essere stabilizzata, ma ciò non le impedisce di battersi per il riconoscimento della professionalità dei suoi collaboratori. Sostiene che non sia quindi il caso di alimentare ulteriormente le polemiche e rinnova inoltre l’appello per una ricerca libera: «il mio monologo si chiudeva con un passaggio molto netto, in cui dicevo che per sostenere la ricerca pubblica l’unica possibilità è investire sulla professionalità e sulle competenze di chi la ricerca la opera, cioè noi ricercatori».

Precari e garanzie – Il segretario Adi Dell’Atti loda il monologo della dottoressa Ciarrocchi su scienza e democrazia. Tuttavia, sostiene che ci sia un problema normativo dietro al precariato nella ricerca. La legge 249/2010 – la legge Gelmini, che disciplina il reclutamento dei ricercatori – ha eliminato i contratti di ricerca a tempo indeterminato, sostituendoli con dei contratti a termine (Rtd). La stabilizzazione si ottiene solo diventando professori associati. E’ però assai raro che un neo-dottore di ricerca abbia accesso a un Rtd. Di norma, un ricercatore ai primi stadi della carriera passa attraverso un lungo periodo fatto di assegni di ricerca ovvero pseudo-contratti a termine, privi di garanzie minime come malattia e genitorialità. Poi può pensare di accedere al contratto a tempo determinato previsto dalla legge Gelmini. A peggiorare le cose c’è l’intermittenza con cui si ottengono questi assegni di ricerca. «Quasi nessuno è in grado di essere sempre coperto dal momento in cui diventa dottore di ricerca al momento in cui diventa professore associato. Questo significa che, siccome il lavoro di ricerca è un lavoro necessariamente continuativo, ci sono lunghi periodi di lavoro non pagato. Inoltre, mancano i finanziamenti da almeno 10 anni a questa parte. Quindi di questi contratti se ne possono fare molto pochi. Per questo il 95% di chi completa un assegno di ricerca è destinato ad essere espulso dall’accademia sul lungo periodo, senza mai diventare associato». afferma Dell’Atti. Ciò ha ovvie ripercussioni sulla progettualità di vita e sulla stabilità economica del ricercatore.