Tinder, il mercato delle relazioni
La regina delle dating app offre l'autopromozione del sé. In cerca di amore o sesso, l'utente si addentra in un luogo pieno di sconosciuti. Ma il racconto della propria identità assume un ruolo centraledi Ivano Lettere e Francesco Betrò
«Se il servizio è gratis, il prodotto sei tu». Il contesto è Internet. I soggetti, le aziende digitali a maggior capitalizzazione di mercato: Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Google e Microsoft. Diventare una merce è la clausola non detta di un contratto stipulato tra i consumatori e i colossi del mondo virtuale. Una condizione particolare, che appare più esplicita se si parla di dating app: qui l’utente sa bene di trovarsi all’interno di un territorio sconosciuto, in cui il contenuto da promuovere è la propria personalità. «Per questo parliamo di mercato, di una sorta di imprenditorializzazione di questa interazione e di questo rischio» dice Alessandro Gandini, professore associato dell’Università Statale di Milano, coautore con Carolina Bandinelli, professoressa associata a Warwick, di “Dating Apps: The Uncertainty of Marketised Love”. Secondo Gandini «il primo scambio con gli altri utenti è valutato come una sorta di titolo finanziario in cui si dice “il potenziale di crescita di questa conversazione è x, oppure non c’è e finisce lì”». Una condizione che non si applica a un solo tipo di interazione sociale anche perché, parafrasando, “non di solo sesso occasionale vive l’utente delle dating app”. A smentire questo luogo comune sono proprio le persone iscritte a Tinder, la dating app più famosa al mondo: solamente l’1% degli italiani si trova su questa piattaforma per cercare «qualcosa di piccante». Il paradigma è cambiato. Al livello globale, secondo il report annuale prodotto da Tinder nel 2021, è emerso che il 60% dei membri iscritti aveva scelto la dating app perché si sentiva solo e desiderava connettersi con altre persone; il 40% per vedere «persone nuove e diverse».
Amore, sesso, amicizia. Più semplicemente, uno strumento che ci aiuta a interagire con l’altro. Le dating app sono un filtro per relazionarci o, come riporta una ricerca di Ypulse sulla Generazione Z, per sentirsi meno soli: il 43% degli utenti ha dichiarato che è proprio questo il motivo per cui ha scelto di iscriversi.
Stereotipi in numeri
«Mi sono iscritto su Tinder il 16 aprile 2021. Il 17 ho fatto match con Anna. La sera abbiamo iniziato a parlare sull’applicazione, poi lei mi ha chiesto di passare su WhatsApp. Il giorno dopo, il 18 aprile, siamo usciti». Paolo e Anna, nomi di fantasia, hanno rispettivamente 29 e 31 anni. Si sono incontrati durante uno dei periodi di chiusura dovuti alla pandemia. Lei aveva già usato dating app in passato. Per lui, invece, era quasi un battesimo. «Avevo scaricato Tinder solo in un altro momento, per scherzo, ma poi l’ho cancellato subito», spiega Paolo, «la seconda volta avevo bevuto: amo farmi gli aperitivi in solitaria. Ho detto “ma sì proviamolo…”, questa volta più seriamente. Avevo voglia di frequentare qualcuno, di conoscere gente nuova. Non per amicizia. Anna è stata la prima e l’ultima con cui sono uscito».
Di Tinder non ci si può fidare, ci si iscrive solo come ultima spiaggia o per trovare dei rapporti occasionali. Quante volte abbiamo sentito queste frasi? Quante volte abbiamo pensato che fossero verità assolute? Niente di più incompleto.
«La prima volta che mi sono iscritta l’ho fatto perché continuavo a frequentare sempre le stesse persone. Lavoro come medico specializzando e continuavo a uscire con i colleghi. Non avevo neanche il tempo e il modo di conoscere altra gente. Volevo cambiare giro, affrontare nuove discussioni». Nella città in cui viveva, Anna utilizzava Once, la cosiddetta app di slow dating. Once consente un solo match al giorno a ciascun utente: le persone che si incontrano hanno 24 ore per capire se l’abbinamento può funzionare, dopodiché possono continuare a chattare se entrambi si trovano bene. Anna lo preferiva alle altre dating app perché, trovandosi in una città grande, Once le permetteva di filtrare meglio i possibili match. Nel centro più piccolo in cui si è spostata, però, non era molto diffusa, quindi ha preferito Tinder. «La seconda volta l’ho fatto perché mi ero appena trasferita in una nuova città. Ero in lockdown, non conoscevo nessuno e non c’era molta possibilità di frequentare persone. Ovviamente volevo anche incontrare qualcuno».
Quella di Paolo e Anna è solo una delle tante testimonianze che abbiamo raccolto, così come delle motivazioni per le quali ci si iscrive a una dating app. Marco e Marie, pseudonimi rispettivamente di un ragazzo italiano e una ragazza belga, si sono conosciuti quando Marco si è trasferito per lavoro nel Paese fiammingo: «Mi sono iscritto su Tinder perché ero in una nuova città e volevo conoscere persone nuove, questo era lo strumento più facile. Prima di Marie ero uscito con una sola persona».
La famosa one-night-stand, l’avventura di una notte, è solo la punta di un iceberg le cui dimensioni sono sconosciute. Un fenomeno complesso, ma non per questo temibile. Spinti da una curiosità morbosa, abbiamo deciso di prendere il toro per le corna, scansando stereotipi e credenze.
Con simili propositi, un questionario non è solo necessario, ma anche doveroso. Per questo motivo, ne abbiamo somministrato uno a un campione italiano di trecento persone. Venticinque quesiti. Alcuni generali, altri specifici. Ma tutti collocati intorno a una grande tematica: che rapporto abbiamo in Italia con le dating app? Come volevasi dimostrare, le risposte sono state diverse, a seconda dell’età, del sesso e delle aspirazioni.
Spesso queste ultime diventano oggetto di analisi semplicistiche, da cui derivano letture distorte delle dating app. Solo a titolo esemplificativo, alla domanda sul perché avessero scelto di iscriversi, il 35% di chi utilizza dating app ha dichiarato che è stato spinto “abbastanza o molto” dalla ricerca di sesso occasionale. A fare compagnia a questa larga fetta di edonisti c’è un 25% di romantici, attratti dall’idea di trovare l’amore tra un match e l’altro. Desideri caratteristici di due fazioni in guerra l’una contro l’altra, da sempre, sia offline che online.
D’altra parte, il dato rilevante emerge dalle risposte di chi reputa essenziali altre due componenti. Potrebbe sembrare strano, ma dietro l’iscrizione a un sito di incontri si nascondono, come motivazioni collaterali, un bisogno di autostima degno di nota (38%) e una significativa ricerca di divertimento (50%) – non esclusivamente dal punto di vista sessuale, anche se nel 50% dei casi chi ha dato un punteggio alto al divertimento ha fatto lo stesso per il sesso occasionale. Queste risposte ci fanno capire come l’utilizzo sia diversificato e, in qualche modo, stia modificando le interazioni sociali, almeno per quanto riguarda il primo approccio. Quasi la metà dei membri di Tinder ha avuto una video chat con un match durante la pandemia: il 40% ha intenzione di continuare a utilizzarle anche quando le restrizioni saranno finite.
«Le dating app sono un mezzo che ha dato una fortissima accelerata digitale alle nostre relazioni», dice Marvi Santamaria, social media strategist, creatrice del blog e della pagina Instagram “Match and the City” e autrice del libro “Tinder and the City” (Agenzia Alcatraz, 2019, Milano). Secondo Santamaria, però, questa è una conseguenza dei tempi che viviamo: «È un mezzo che si cala nella società. Sono una cartina al tornasole di quello che accade a livello socio-culturale. In qualche modo, anche l’utilizzo delle app si è evoluto ed è diventato sempre più sdoganato». Questo cambiamento è legato a vari fattori.
In primis, ci dice la psicologa Eva Toccagni, quello generazionale: «Da una certa età in su c’è ancora lo stereotipo che non sia possibile trovare l’amore online, mentre per le nuove generazioni che utilizzano tantissimo internet e le dating app è una pratica più diffusa». In generale, il 51% delle persone che ha risposto al questionario è convinto che si possa trovare l’amore su Tinder, ma più si va avanti con l’età più il trend scende. Sotto i 27 anni, il 56% è dell’idea che questo genere di applicazioni sia possibile incontrare l’anima gemella. Al di sopra di quella soglia anagrafica, la percentuale cala al 47%. Un parere che, comunque, infonde speranza in chi ha investito e tuttora investe sulle piattaforme di dating online. Tuttavia, i soggetti a cui abbiamo somministrato il questionario hanno cambiato opinione nel momento in cui hanno dovuto rispondere a un’altra domanda. Un quesito semplice tanto quanto quello precedente, con l’unica differenza che la risposta avrebbe coinvolto direttamente la loro sfera sentimentale: “Pensi che tu possa trovare l’amore su Tinder?”. Il 54% ha storto il naso o, per dirla in termini scientifici, ha dato un valore molto basso alla possibilità che questo evento si realizzi. Uno scetticismo che accomuna le varie fasce anagrafiche, ma che cresce con l’avanzare dell’età: sotto i 33 anni il 18% crede fortemente di poter trovare l’amore su Tinder; sopra, la speranza si riduce al 15%.
Un risultato in linea con quanto afferma Toccagni: «Si tende sempre a pensare che per gli altri sia tutto possibile. Questo accade soprattutto nel mondo dei social, dove mettiamo in vetrina solo le cose più belle, perché scegliamo cosa mostrare e cosa pubblicare». «Tutta questa bellezza», afferma la psicologa autrice dell’articolo “Tinder: chi lo usa e perché”, «fa sembrare che la vita di queste persone sia fatta solo di amore, solo di bellezza. L’effetto è quello di svalutare la propria esperienza, quindi di pensare che agli altri vada tutto bene, mentre solo noi abbiamo sfortune, solo noi non troviamo la persona giusta».
Tinder and The City
Un rischio, quello paventato da Toccagni, legato in modo indissolubile al nostro periodo storico, fatto di istantaneità e frenesia, di esagerazione e dissolutezza. Caratteristiche che danno forma alle metropoli. Come Milano, detentrice di un record particolare. Secondo il rapporto del 2019 pubblicato da Tinder, il capoluogo lombardo è la città dove si registra il maggior numero di interazioni nel nostro Paese.
Nella capitale economica italiana vive da 8 anni Marvi Santamaria. Nata a Licata (Agrigento) nel 1988, è stata tra le prime ad aver scaricato Tinder in Italia. Lo ha fatto nel 2014, due anni dopo il lancio ufficiale dell’app negli Stati Uniti, nel 2012. «Uscivo da una relazione lunga e avvertivo la necessità di riscoprirmi, di mettermi alla prova, tra l’altro mi ritrovavo a Milano da ragazza single e non conoscevo nessuno: era dunque anche un modo per instaurare relazioni sociali a prescindere da tutto», racconta la social media strategist. Non è un caso che Milano sia stata definita la città dei single. Nel contesto italiano, si tratta di una delle poche metropoli in cui approdano ogni anno centinaia di persone per motivi di studio o lavoro. Una città dove la vita corre veloce e il tempo a disposizione è poco. Condizioni perfette per rendere l’utilizzo della dating app una pratica invalsa. A essere determinante per il successo milanese di Tinder è stato dunque anche un fattore di natura geografica.
«Avvalendosi di forme di geolocalizzazione, le dating app funzionano di più nel momento in cui la platea di potenziali match è più ampia», spiega Alessandro Gandini, professore associato di sociologia all’Università Statale di Milano. «Un tema importante è la possibilità di scelta, congenita alle società neoliberali del presente. La dating app offre una vasta gamma di profili da valutare e, chiaramente, questo funziona meglio nelle città come Milano dove ce ne sono di più». E dove c’è anche un contesto più aperto ed eterogeneo rispetto ad altre parti d’Italia.
«È interessante vedere la differenza anche tra nord e sud», dice Santamaria, «io stessa ho provato a utilizzarle al sud e ho notato differenze. A Milano ci sono meno pregiudizi, c’è grande apertura culturale, c’è fervore, è più stimolante, è tutto molto dinamico, è facile incontrare gente con tanti interessi. Possono “matcharsi” persone con passioni diverse e di nicchia, perché nella capitale della moda c’è uno spazio per tutto. È una città multiculturale e quindi non ci si trovano solo persone italiane: molte ragazze della mia community mi hanno detto che utilizzano le dating app per conoscere persone di culture e nazionalità diverse perché si sono stancate di frequentare soltanto italiani. Milano offre tutto questo».
Le differenze tra Italia e altri Paesi
Nonostante nell’immaginario collettivo la reputazione delle dating app sia migliorata con il tempo, in Italia gli stereotipi sono tuttora vivi e vegeti. Secondo Santamaria: «Questo affonda le radici in un bagaglio cattolico che ci portiamo dietro, che ha provocato una posizione sessuofobica nel nostro Paese: anche se spesso ci sentiamo così progrediti e democratici, in realtà dal punto di vista sessuale siamo molto indietro. Negli Usa o nel Regno Unito sono sdoganati vari utilizzi, mentre da noi li associamo alla finalità del flirting, dell’approccio sessuale, del divertimento. In Italia ancora non è concepita l’idea che queste app possano essere dei mezzi per conoscere le persone in generale, come se fossero un punto di partenza».
Proprio in UK Gandini e Bandinelli hanno condotto uno studio su una serie di focus group nel contesto londinese. “Dating Apps: The Uncertainty of Marketised Love” si è concentrato sul modo in cui gli utenti presentavano sé stessi nell’app e sulle decisioni che prendevano quando dovevano interagire con persone sconosciute. Secondo Gandini, «prevale l’idea della scoperta, del tentativo di vedere cosa succede all’interno di questo contesto. Prevale l’idea che questo sia il modo prevalente con cui si entra in una relazione amorosa oggi, che non sia più una forma stigmatizzata come si pensava anni fa». Stando al loro lavoro, la tecnologia ha mediato l’amore da sempre: la lettera è un mezzo di comunicazione, la telefonata della SIP – Spot pubblicitario d’inizio anni ’90 della Società Italiana per l’Esercizio delle Telecomunicazioni poi diventata Telecom -, era la rappresentazione stereotipata della relazione amorosa tra gli adolescenti degli anni ‘90. E anche quella era tecnologia. Adesso, sostengono gli intervistati al focus group, il modo principale attraverso cui si sviluppano i rapporti sentimentali – o anche solo amicali – sono le dating app.
In questo senso la pandemia ha dato una fortissima accelerata e ha creato altre opportunità e modalità di relazione, come il virtual dating. Il booster degli ultimi due anni, dato da una situazione anomala per chiunque, ha contribuito a sdoganare un pregiudizio di fondo che aleggiava attorno alle dating app. «Posso dire che è in atto un processo di normalizzazione delle relazioni che nascono tramite mezzi digitali. Se all’inizio, quando Tinder è arrivata in Italia, poteva esserci molta ritrosia e molti dubbi», dice Santamaria, «adesso vediamo sempre più coppie che fanno coming out e, di conseguenza, sempre più famiglie che riescono a digerire meglio questa novità che fa parte delle nostre abitudini digitali». Anche se la tendenza è questa, circa il 12% di chi non le usa, stando al nostro sondaggio, attribuisce molta importanza alla vergogna quale motivo principale della propria assenza su Tinder & Co.: sarebbe eccessivo l’imbarazzo nel dover comunicare ai genitori o agli amici quale siano state le modalità dell’incontro.
Anche tra quelli abituati a giudicare i profili di potenziali partner con i polpastrelli, non tutti sono disposti ad ammettere che a far scoccare la scintilla è stato un algoritmo. «Il discrimine è l’età: sotto i quarant’anni raccontiamo la verità, sopra diciamo di esserci conosciuti tramite amici di amici. Anche al lavoro evito i dettagli sulle dating app», ci hanno raccontato Marco e Marie. Una storia simile a quella dei nostri primi protagonisti, Paolo e Anna, se non fosse per un dettaglio: loro non hanno avuto problemi a spiegare come si fossero conosciuti alle persone che li circondano. Tutt’oggi, però, quando sono a lavoro preferiscono glissare: «Perché c’è ancora un po’ di pregiudizio sulle app di incontri, si pensa che siano per disperati», dice Anna.
Fiducia, self branding e imprenditorializzazione
«Alle persone che hanno partecipato ai focus group abbiamo chiesto cosa servisse all’interno di questi contesti per fidarsi di un ipotetico sconosciuto, come si passa dall’interazione digitale a una faccia a faccia, che cosa si fa e che cosa non si deve fare» spiega Gandini. Dallo studio condotto, i due professori hanno proposto un ragionamento incentrato sull’idea del sé come brand. Chi utilizza dating app promuove sé stesso, sviluppa un piccolo brand che opera all’interno di un mercato di relazioni basato sull’incertezza in cui è importante saper navigare. Questa condizione comporta dei rischi. «Quella a cui io e la mia collega facciamo riferimento non è un’idea di fiducia basata sulla reciprocità, quanto piuttosto sulla valutazione del rischio e dell’interazione con gli unfamiliar others», spiega Gandini. Una definizione sociologica utilizzata per catalogare quelle persone «che non fanno parte della famiglia e di cui non si ha un’esaustiva conoscenza». Sulla base di questo concetto, Gandini e Bandinelli hanno identificato gli utenti con cui ci si relaziona sulle dating app come quasi-strangers, «persone di cui si ha una serie di informazioni che, però, non sono sufficienti ad avere fiducia nel modo più radicale e approfondito», precisa il sociologo.
A tal proposito, secondo il questionario che abbiamo condotto, il 40% di chi attualmente utilizza un’app per incontri ha abbastanza o molta fiducia nel prossimo, ma la percentuale scende in modo considerevole nel momento in cui è chiamata in causa l’uscita con un quasi-stranger: alla domanda se si fidano delle persone con cui escono, solo il 27% ha risposto “abbastanza” o “molto”. Non solo. Quando si parla di aspettative riposte nelle persone con cui si condivide il primo aperitivo, solo un quinto di loro ne ripone molte.
Tra i tanti risultati emersi dal sondaggio, salta all’occhio quello relativo allo stato d’animo vissuto poco prima di incontrare la persona con cui è scattato il match. Stiamo parlando della curiosità: l’83% ha scelto questa risposta per spiegare quale sia l’emozione che fa compagnia lungo il tragitto per arrivare al luogo dell’appuntamento.
Sempre la curiosità spiegherebbe le scelte diversificate degli utenti e la voglia di ampliare la cerchia delle proprie relazioni, a prescindere da quale sia l’obiettivo principale con cui ci si è iscritti. L’85,7% di chi ha scelto queste piattaforme per cercare principalmente sesso occasionale nell’ultimo anno è uscito con più di una persona. Nulla di strano, si dirà. Ciò che invece desta sorpresa è un’altra percentuale, relativa a chi vuole trovare l’amore. Di questi, il 57,9% ha avuto molteplici appuntamenti negli ultimi 365 giorni. Se la “botta e via” costringe, per ovvi motivi, a cercare sempre nuovi partner in balia di un istinto predatorio, lo stesso vale per chi è vulnerabile alle suggestioni del sentimento. Ma, in quest’ultimo caso, è il concetto di aleatorietà a prevalere, come se l’utente affidasse il proprio destino alla logica algoritmica, confidando nella sua infallibilità.
Secondo Gandini, è bene parlare di scommessa, in riferimento allo «sviluppo di un’interazione, che inizia e non si sa come proseguirà, tant’è vero che molti raccontano di fallimenti clamorosi dopo il primo scambio di messaggi».
Un fenomeno strettamente collegato alla società che cambia ed evolve: online e offline, due facce della stessa medaglia, si contaminano ed è sempre più difficile tenerle separate. Ma se da una parte, come abbiamo visto, un numero infinito di possibilità si apre a chi sa cogliere questi mutamenti, dall’altra ci sono dei pericoli su cui è importante riflettere. «Il rischio è quello di anestetizzare le emozioni» dice la dottoressa Toccagni «perché la funzione dei neuroni specchio, necessaria per misurare l’incontro con l’altro, nell’online si perde. Se io mi relaziono sempre con uno smartphone, non vedo l’altro, non ho la mimica facciale, non vedo se una persona sorride, se è triste. Gli scambi relazionali perdono quella dimensione corporea che ci permette di sentire le emozioni».
Questa considerazione è in linea con il pensiero di Gandini, secondo cui la scomparsa della dimensione corporea è sostituita – almeno in un primo momento – dalla valutazione del potenziale dell’utente: una pratica che prevede l’analisi di aspetti apparentemente insignificanti, «come per esempio l’utilizzo di un punto esclamativo in più o dei puntini di sospensione che veicolano messaggi impliciti. In tal senso, il rischio va tradotto non in paura, ma in termini finanziari: es. “io posso acquistare azioni di una società, c’è un certo grado di rischio». Alla serotonina, ormone della felicità, si aggiunge dunque l’adrenalina, ormone della competizione. Riadattando l’adagio popolare, “dove c’è rischio non c’è perdenza”.
Il futuro delle dating app, tra gamification e inclusività
«C’è un grande segreto che riguarda il sesso: a molte persone non piace farlo». Era il 1987 quando Leo Bersani, filosofo queer, utilizzava queste parole nell’incipit del suo articolo intitolato “Is the rectum a grave?”. Una frase che lascia basiti, tanto più se all’amplesso associamo sollievo, ristoro dei sensi, o addirittura sensazioni catartiche. Se il sesso – ma ciò vale anche per l’amore – dovesse perdere la sua funzione liberatoria, come potrebbe mantenere il suo appeal, il suo fascino agli occhi della massa? Per alcuni, la soluzione è nascosta nella gamification. Si tratta di un insieme di regole mutuate dal mondo dei videogiochi, che prevedono l’applicazione di meccaniche ludiche ad attività non legate al gioco. L’obiettivo è influenzare e modificare il comportamento degli utenti, aumentando il loro coinvolgimento. A tal fine, vengono introdotti concetti ludici: punti, livelli, missioni e sfide. Espedienti semplici per smussare gli angoli più pericolosi dell’esperienza sessuale e amorosa. Per costruire un mondo in cui gli abbinamenti algoritmici suscitano sorpresa nella maggior parte dei casi. Uno stato euforico garantito anche dalla pratica dello swiping, con la quale le valutazioni estetiche vengono espresse senza temere sanzioni sociali. Il tutto vissuto con la leggerezza calviniana, quella che ti fa planare sulle cose dall’alto, senza avere macigni sul cuore. E, racimolando granelli di autostima tra un match e l’altro, l’utente sa che potrà trarre solo giovamento da un gioco che detta poche regole.
Come altri settori, anche quello del dating online è stato investito da quest’ondata di ludicizzazione. Tinder non fa eccezione. Tant’è che nell’ultimo anno ha aggiunto nuove funzionalità. Una scelta motivata (anche) dal suo interesse per la GenZ. È così che da un semplice sito di incontri, noto ai più per lo swiping, Tinder si è trasformato negli ultimi anni in una piattaforma articolata. Da “Esplora”, sezione dedicata a chi punta sulla condivisione di interessi e passioni per trovare partner e/o amici, a “Botta e Risposta”, quiz di cultura popolare che aiuterà l’algoritmo ad abbinare gli utenti. Passando per “Vibes”, modalità attiva solo per 72 ore, e “Swipe Night“, una serie in cui il destino dei personaggi dipende dalle scelte degli utenti. Fino ad arrivare a “Match al buio”, con cui i membri possono chattare tra loro senza vedere le foto profilo.
Ma i cambiamenti a cui è andato incontro il mondo dei siti di incontri non riguardano soltanto la logica interna a ognuno di essi. Negli ultimi 27 anni, da quando è nato Match.com nel 1995, le aziende del settore hanno ampliato l’offerta per soddisfare le esigenze di comunità diverse tra loro per orientamento sessuale, censo, credo religioso e tanto altro ancora. Hiki, per esempio, è rivolto a persone con disturbi dello spettro dell’autismo. Ashley Madison soddisfa i desideri proibiti dei fedifraghi. Her offre occasioni di incontro a chiunque non si senta rappresentato nel sistema del binarismo di genere. Raya, infine, è dedicata all’élite cosmopolita, composta dai membri dell’alta società.
Nuove dating app e nuove possibilità, per un mondo virtuale che si avvicina sempre di più alle esigenze di quello reale. «Visto che viviamo a 100 all’ora e siamo sempre iper connessi», commenta Paolo chiudendo la chiacchierata, «penso che diventerà un modo consueto di conoscersi, come già lo è in molte parti del mondo. Come puoi trovare l’amore della vita, puoi anche trovare altro o niente. Ma questo succede anche nella vita reale».
«Con la pandemia», dice Santamaria, «si poteva pensare che non ci sarebbe stato un futuro per le dating app, invece sono esplose perché c’è stata un’accelerazione a livello digitale. La pandemia ha rimesso in gioco la tendenza dello slow dating, ci si prende più tempo, magari prima di conoscersi di persona si fanno delle videochiamate, quindi il virtual dating. Alcuni studi statunitensi hanno dimostrato che in prospettiva, nei prossimi anni, almeno il 30% di figli sarà nato da coppie che si sono conosciute online. A me piace dire che ci saranno sempre più figli di Tinder e figli delle dating app. Secondo me questo fenomeno non tramonterà».
