La fermata della linea 84, in piazzale Susa, già alle 13 è gremita di gente. Manca più di un’ora ai funerali di Licia Rognini Pinelli, eppure è evidente che ogni persona sia diretta nello stesso luogo: via Corelli 120, Casa Funeraria Milano San Siro. «Scenderemo tutti alla stessa fermata» si sente mormorare su un bus sempre più pieno, mentre un signore con un cappello a tesa larga guarda con occhi curiosi intorno a sé, come a cercare volti amici. In effetti, l’impressione è che tutti si conoscano. Molti sorridono con complicità, qualcuno invece si immalinconisce: «Lavoravo in via Larga nel 1969, era un venerdì come questo, ma più grigio. Poi è cambiato tutto», ricorda una signora. Ma in quella periferia est in cui compare anche un timido sole, non c’è tristezza, c’è orgoglio. E ad accogliere parenti e amici si levano bandiere di molte appartenenze. Una sola, però, orna anche il feretro: è la bandiera nera con la A bianca cerchiata dell’Anarchia. È la bandiera di Pino, l’anarchico accusato ingiustamente della strage di Piazza Fontana e poi precipitato dalla finestra della Questura di Milano. È la bandiera della prima donna della storia ad aver denunciato un questore.
Alla cerimonia laica non manca nessuno. Oltre alle figlie e ai nipoti, anche gli amici e i compagni di una vita. C’è Primo Minelli, presidente dell’Anpi Milano, c’è Giovanni Impastato, fratello di Peppino, c’è il giornalista Gad Lerner, c’è il giudice Guido Salvini, che aveva riaperto il processo per la strage. E c’è una voce collettiva che inaugura la commemorazione intonando una celebre ballata: «Impossibile – grida Pinelli – un compagno non può averlo fatto e l’autore di questo misfatto tra i padroni bisogna cercar». La prima a parlare è Claudia, una delle figlie. Si rivolge a Licia, non alla madre. Invoca l’identità di una donna che troppo a lungo, come racconta poi Minelli, non è più stata un «io»: «Quanta vita Licia, ti chiedevi come fosse possibile vivere così a lungo e ultimamente ti chiedevi anche perché. Quante persone ci sono, quanto affetto, ti schermiresti perché non volevi diventare un monumento nazionale, nonostante quello che ti è successo. Nonostante il calvario a cui sei stato sottoposta, non ti sei mai permessa la rassegnazione e che gli altri decidessero per te, che ti incattivissero e hai costruito sempre. Sei stata la nostra roccia. Con dignità hai continuato a chiedere giustizia per quell’anarchico idealista che avevi sposato, il nostro papà, ucciso innocente nei locali della Questura di Milano».
Poi la parola passa alle nipoti. «Siamo state davvero fortunate» dice. Piangono intorno a quel microfono: «Abbiamo avuto una nonna coraggiosa e forte, e lo sappiamo. Abbiamo avuto una nonna che ha significato tanto per tante persone, e lo sappiamo». E ricordano le fortune di esserle nipoti: «Amava tanto leggere, ci ha trasmesso questa passione. Le sue disavventure in giro per il mondo erano tra i suoi aneddoti più divertenti. Diceva sempre che tutti gli animali la apprezzavano perché sono sensibili e sanno riconoscere le persone buone… ma tralasciava di parlare dei biscottini e dei pezzi di prosciutto che dava sottobanco. È stata sempre presente nelle nostre vite: ad ogni passo importante e anche in quelli normali e quotidiani. Sempre pronta ad ascoltare i dettagli delle nostre vite, seduta sulla sua poltrona in cucina, sempre accogliente a modo suo, contenta di vederci e ascoltarci. E quando andavano a mangiare a casa sua, trovavamo sempre tutto apparecchiato, ma il cibo dovevamo portarlo già pronto da fuori noi perché cucinare non le interessava. E se portavamo le patate arrosto, tanto meglio. Ma soprattutto siamo state davvero fortunate perché abbiamo avuto una nonna generosa con i suoi ricordi. Una nonna caparbia e onesta che ci ha insegnato cosa significhi lottare e resistere».
Al ricordo personale si intreccia quello politico. Lorenza Ghidini, direttrice di Radio Popolare, ricorda l’incontro tra Licia Pinelli e la vedova del commissario Luigi Calabresi, Gemma: «Grazie per aver accettato quell’invito al Quirinale, anche se poi ti hanno appioppato il ruolo di simbolo della pacificazione. Una malintesa pacificazione, secondo noi. In questi anni c’è stata una specie di par condicio negli inviti, nelle menzioni, come se le vostre vite fossero proseguite in modo paragonabile dopo le morti dei vostri mariti, che invece sono state così diverse. Come se ci fosse reciprocità nelle vostre storie. Però grazie per aver abbracciato sua moglie: hai saputo mostrare umanità anche dopo tante fatiche». Massimo Varengo, esponente della Federazione Anarchica Italiana, va oltre: «Calabresi è stato iscritto al Famedio, fra quelli che hanno dato lustro alla città, con motivazioni che hanno dell’incredibile, viene visto come esempio luminoso della giustizia. Credo che più ipocrisia di così non possa esserci». Poi prende la parola Primo Minelli, che ricorda le difficoltà di una giovane madre rimasta sola, isolata, a combattere contro un’ingiustizia: «Questa è la forza che ti ha portato a combattere. Non ti sei arresa di fronte alle menzogne». La sua attenzione si sposta anche sul presente, sugli scontri di Bologna, su una temperie che ricorda, a suo avviso, in modo allarmante quegli anni: «Mi viene quasi da dire che è meglio tu non veda cosa sta succedendo». Da fuori rimbombano gli applausi, in molti annuiscono. Tanti ricordano la propria giovinezza, ma dicono ai giovani presenti: «Abbiamo fallito, abbiamo smesso di lottare, ci siamo disuniti».
Eppure a vederle così, queste centinaia di persone che ricordano Licia e Pino e ripetono insieme la verità di quegli anni, non sembrano disunite. Sembrano compatte. Dopo due ore di parole e commozione, la bara esce nel cortile della Casa Funeraria accolta dalle bandiere anarchiche e partigiane, listate a lutto. Al cielo si levano centinaia di pugni chiusi e tutti cantano O Bella Ciao, suonata dalla Banda degli Ottoni. Una signora si rivolge a una giovane donna, le dice che è felice di vedere anche ragazzi. Poi si accende una sigaretta e le chiede se le dia fastidio il fumo. «Ormai dà fastidio – aggiunge – Ai miei tempi meno». La giovane mostra il tabacco. «Io non le ho mai sapute rollare» dice la signora. «Sai, ero militante di Potere Operaio, a quei tempi. L’ho seguita tutta, questa storia. È il brutto di essere vecchi: la storia ci ha già colpito alle ginocchia. Ora son nell’Anpi, cerco di fare ancora il mio». Un uomo le si avvicina: «Hai una sigaretta, compagna? Va bene se ti chiamo compagna?». «Non va bene se non lo fai», risponde lei. «Non conoscevo Licia, ma le figlie», racconta lui. «Chiunque sia qui la conosceva», corregge lei.