«Imporrò dazi all’Ue? Assolutamente. L’Ue ci ha trattato in maniera terribile». Lo aveva detto, ora più che un avvertimento sembra una prossima realtà. Ma la strategia economica di Donald Trump inizia altrove: i primi dazi colpiscono Canada, Messico e Cina. La minaccia era già arrivata in campagna elettorale, durante la quale il neo presidente non aveva fatto mistero di voler mettere in atto misure protezionistiche. L’Unione europa intanto rimane appesa ad un filo, mentre la Commissione Ue sta valutando strategie di risposta per non farsi trovare impreparata. Per Canada, Messico e Cina invece è già realtà: i dazi entreranno in vigore martedì 4 febbraio.

Come funzionano – I dazi sono imposte sull’importazione di merce straniera, si esprimono in valore percentuale rispetto al prezzo di vendita e vengono pagati dall’importatore. Il loro obiettivo primario è stimolare l’economia interna di un Paese scoraggiando il commercio con l’estero. Per questo motivo l’imposizione di dazi fa parte di una politica protezionistica. Un dazio del 10% imposto su un prodotto proveniente dalla Cina si traduce in un aumento del prezzo di acquisto del 10% pagato dal grossista statunitense in dogana. Uno smartphone cinese che costa 1000 dollari, con un dazio del 10% verrebbe a costare per il grossista alla dogana 1.100 euro. I costi dunque in una prima fase ricadono sul grossista, e poi vengono trasmessi a catena fino ad arrivare al consumatore, che pagherà lo stesso prodotto ad un prezzo superiore rispetto a prima. Ma di quanto?
L’effetto di questo sull’economia dipende dall’elasticità della domanda di quel prodotto: ovvero quanto questa sia reattiva ai cambiamenti di prezzo. Per un prodotto essenziale o molto desiderato (come ad esempio il carburante), la domanda è inelastica, il che significa che i consumatori continueranno a comprare quel prodotto nonostante un aumento anche significativo del prezzo, diminuendo così il loro potere d’acquisto. Per la maggior parte dei prodotti tuttavia la domanda è elastica a livelli diversi (ed è il caso dello smartphone): in questo caso il produttore estero esportatore per contrastare il calo delle vendite dovute al dazio e continuare ad avere un suo mercato negli Stati Uniti potrebbe decidere di assorbire parte dei costi. Per la maggior parte dei prodotti dunque i costi sono assorbiti in parte dai consumatori in parte dai produttori. Le conseguenze di questo sono molteplici: sul breve termine il consumatore diminuisce il suo potere d’acquisto. Contemporaneamente l’inflazione sale, aumentando questo impoverimento. L’aumento dell’inflazione potrebbe tuttavia potrebbe essere momentaneo visto che anche la domanda dei consumatori calerebbe, provocando una graduale disinflazione. Sul lungo termine, lo spostamento di interesse sul mercato interno potrebbe stimolare l’industria interna creando nuovi posti di lavoro. La maggior parte degli economisti, tuttavia, vede questa restrizione del libero scambio dannosa e inefficiente a livello globale.

Effetti sull’Italia – Per noi l’introduzione di nuovi dazi da parte americana potrebbe avere un costo aggiuntivo fino a 7 miliardi di euro. Lo sostiene un’analisi di Prometeia. Secondo l’istituto di ricerca, «da un valore di dazi fronteggiati pari a quasi 2 miliardi di dollari nel 2023 (il 2.5% di quanto esportato negli Stati Uniti), per l’Italia il costo del nuovo protezionismo americano sarebbe di oltre 4 miliardi nel primo scenario (da 2 a 6 miliardi)». Simulando infatti un aumento di 10 punti percentuali sui prodotti già sottoposti a dazi (come quelli appartenenti al settore moda e all’agroalimentare) e mantenendo a 0 quelli sui prodotti che ad oggi ne sono esclusi, l’istituto stima un costo triplicato per l’Italia rispetto al 2023. Scenario ancora più critico si ottiene simulando un aumento del 10% generalizzato, quindi su tutto l’export: Prometeia in questo caso prevede un aumento di 7 miliardi di dollari (da 2 a 9 miliardi). Nel secondo scenario le conseguenze più pesanti investirebbero il settore della meccanica. Secondo Prometeia «questo andrebbe a interessare anche i beni a media e alta intensità tecnologica (analogo il caso della farmaceutica) che proprio perché funzionali alle produzioni domestiche sono oggi meno esposti al tema delle tariffe».