Censure preventive, espulsioni di volontari, chiusure. Se le condizioni di un carcere si misurano anche sulla base dei diritti garantiti alle persone detenute, la situazione in cui versano i giornali fatti dai detenuti suona come un campanello d’allarme. Risale al 7 gennaio scorso la chiusura della Fenice, la testata del carcere di Ivrea. Ma già prima in tutta Italia molte redazioni hanno subito pressioni per limitare i temi trattati e in alcuni casi si sono trovate costrette a espellere alcuni volontari o a sottoporre preventivamente la lettura del giornale alla direzione del carcere per averne l’approvazione.
La lettera – Per questo il coordinamento dei giornali e delle altre realtà dell’informazione e della comunicazione sulle pene e sul carcere ha pubblicato una lettera aperta in cui rivendica l’importanza della libertà di espressione e in cui chiede che le redazioni vengano ricevute dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. «lL’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario – si legge nella lettera – dando concreta applicazione all’art. 21 della Costituzione, così recita al comma 8: “Ogni detenuto ha diritto a una libera informazione e di esprimere le proprie opinioni, anche usando gli strumenti di comunicazione disponibili e previsti dal regolamento”». Nella lettera le redazioni lamentano anche la mancanza di strumentazione adeguata e i rallentamenti burocratici: «Se l’attività giornalistica nei penitenziari è ritenuta una risorsa importante per il dialogo tra realtà detentiva e società esterna, perché le Istituzioni non semplificano le procedure e accorciano i tempi di tante estenuanti attese?».
La censura – A essere finiti nel mirino delle direzioni carcerarie sono in particolare i temi trattati dalle riviste. Tra storie personali, testimonianze interne al carcere e racconti personali, la voce delle persone detenute racconta dall’interno le condizioni delle carceri italiane: sovraffollamento, problemi igienico-sanitari, qualità del cibo, disagio psico-fisico. «Raccontano ciò che vivono: gli spazi ristretti, l’acqua fredda, la convivenza forzata», conferma Giancarlo D’Adda, giornalista volontario nel carcere di Monza. «È grave che in alcune carceri abbiano proibito di trattare alcune tematiche». Come nel carcere di Lodi, dove è vietato scrivere di sessualità, affettività e migranti: «Se si pensa a quanti detenuti sono stranieri si comprende quanto sia assurdo e pericoloso proibire loro di parlare del proprio background migratorio».
Gli altri casi – A Rebibbia è stato chiesto di non firmare i pezzi. A Trento un volontario, Piergiorgio Bortolotti, è stato dichiarato “non gradito” dopo dieci anni di attività. Quasi ovunque le redazioni non dispongono di strumenti elementari di lavoro, come computer e chiavette usb. Ma il timore di volontari e testate è che sia una situazione destinata a espandersi anche in altre carceri: «Per ora a Monza non ci sono mai state censure preventive, ma il timore nostro e di tutte le redazioni d’Italia è che arrivino disposizioni dall’alto che potrebbero vanificare il nostro lavoro», racconta D’Adda. Che aggiunge: «Vanno contro la Costituzione e l’Ordinamento penitenziario in un contesto già reso grave dal nuovo decreto sicurezza».