Dopo l’attacco statunitense di domenica 22 giugno ai siti nucleari di Fordow, Natanz e Isfahar, con bombardieri B-2 e missili da crociera Tomahwak, l’Iran ha promesso una «risposta decisiva» e «conseguenze durature». Il ministro degli Esteri Abbas Araghci ha fatto sapere che «tutte le opzioni sono sul tavolo» e il presidente Maosud Pezeshkian ha detto che «gli Usa pagheranno per la loro aggressione». Secondo quanto riportato da NBC News, durante il G7 in Canada dello scorso 16 giugno, a Donald Trump era già arrivato un avvertimento da parte dell’Iran: un attacco al nucleare di Teheran avrebbe potuto attivare cellule terroristiche dormienti negli Stati Uniti e nei territori da loro controllati.

Strategie e basi militari – Adesso, la paura di un’ondata di attentati si fa concreta. Nello specifico, si temono attacchi con bombe e autobombe, sabotaggi, operazioni di hackeraggio e attentati suicidi. Stando a Reuters, Washington mantiene al momento 40.000 truppe dislocate in Medioriente, inclusi sistemi di difesa aerea, velivoli da combattimento e navi da guerra equipaggiate per intercettare i missili. Le basi militari si trovano in Iraq, Siria, Qatar, Kuwait, Arabia Saudita e Bahrein. Proprio quest’ultimo ospita una flotta navale statunitense che Teheran punta a distruggere. «È un obiettivo su cui dobbiamo lanciare un attacco missilistico e contemporaneamente chiudere lo stretto di Hormuz alle navi americane, britanniche, tedesche e francesi», ha dichiarato domenica 22 giugno il rappresentante di Khamenei, Hossein Shariatmadari, sul quotidiano locale Kayhan. Un altro importante presidio è quello iracheno di Al-Asad, principale punto di dispiegamento statunitense nel Paese e ripetutamente bersaglio di attacchi iraniani o milizie alleate. Nel 2020, ad esempio, l’Iran lanciò sedici missili contro basi Usa in Iraq, undici dei quali colpirono proprio Al-Asad, ferendo decine di soldati.

Milizie e potenza di fuoco – Il Pentagono ha da poco aumentato la protezione dei soldati in Iraq e in Siria e spostato aerei e navi dalle basi vulnerabili. Una strategia di prevenzione, volta ad anticipare attacchi asimmetrici dalle milizie sciite riunite sotto l’ombrello delle “Unità di mobilitazione popolare (PMU)”, su cui storicamente Teheran ha fatto affidamento. Tra queste la coalizione Islamic Resistance in Iraq, che nel 2023 aveva causato le prime perdite tra le fila americane dall’inizio del conflitto Israele-Hamas, e Kata’ib Hezbollah, il gruppo iracheno designato già nel 2009 come organizzazione terroristica dagli Usa e accusato dell’attacco di cinque anni fa alla base di Al-Asad. La potenza di fuoco iraniana passa anche dai militanti, perché l’arsenale missilistico costa e scarseggia. E, in gran parte, è stato utilizzato per i bombardamenti sulle città israeliane. Rimangono invece, sottolinea il Guardian, «missili a corto raggio e droni».

Il possibile ritorno di Hezbollah – Altro tavolo su cui l’Iran potrebbe operare sarebbe quello libanese, attraverso un rafforzamento di Hezbollah. Secondo fonti israeliane, riporta ancora NBC News, la milizia è stata indebolita dai numerosi attacchi subiti, inclusi l’assassinio del leader Hassan Nasrallah nel settembre 2024 e le operazioni mirate contro le infrastrutture militari. Per cui, adesso, non ha intenzione di unirsi al conflitto contro Israele. La possibilità è che l’Iran tenti di ricostruire Hezbollah come forza alleata, sfruttando le sue reti logistiche e finanziarie, ma l’operazione richiederebbe anni. Una riorganizzazione nel breve termine dovrebbe fare i conti con il rafforzamento dello Stato libanese e con il declino del regime di Assad in Siria.