Ci sono più di 24 milioni di persone che soffrono di insicurezza alimentare acuta. Sono nel paese che ha anche il più alto numero di sfollati interni, 11,6 milioni. Conseguenze di una guerra che dura da più di due anni e che ha già causato un numero incalcolabile di vittime, tra le 60mila e le 150mila secondo alcune stime. Succede in Sudan, dove due generali continuano a contendersi il potere affamando e uccidendo la popolazione che vorrebbero governare.

Mohamed Hamdan Dagalo

L’inizio del conflitto – La guerra è scoppiata nell’aprile del 2023, quando le fazioni del generale Abdel Fattah Al Burhan e di Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti, hanno iniziato a scontrarsi nelle strade di Khartoum. I due militari si erano alleati per rovesciare il regime di Omar al Bashir, riuscendoci con un colpo di stato nel 2019. Ma non sono stati in grado di dare seguito al risultato ottenuto: Al Burhan e Dagalo erano i leader del governo di transizione che avrebbe dovuto trasformare il Sudan in una democrazia dopo trent’anni di dittatura. A scontrarsi sono l’esercito sudanese guidato da Al Burhan e la milizia paramilitare Forze di supporto rapido (Rsf) di Dagalo. È proprio da questo gruppo irregolare che è nata la tensione tra i due capi: dopo aver combattuto insieme per cacciare al Bashir, Hemedti avrebbe voluto vedere le sue Rsf integrate nell’esercito regolare. Il rifiuto a questa richiesta è stata la miccia che ha appiccato il grande incendio che è questo conflitto.

Mappa del Sudan. In verde la regione del Darfur

La situazione sul campo – Il Sudan ora è diviso: l’esercito ha ripreso la capitale, Khartoum, e controlla l’est del paese. Le Rsf invece continuano a mantenere la presa sul Darfur, da dove Medici Senza Frontiere lancia un appello per fermare massacri e stupri etnici. Tanto che a gennaio gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a queste forze ribelli accusandole di genocidio. I paramilitari di Hemedti sono eredi del movimento dei Janjaweed, miliziaislamista  che durante gli anni della dittatura ha affiancato l’esercito nella campagna di pulizia etnica nei confronti della popolazione non araba del Darfur. I leader dei masalit, tra le comunità più colpite, denunciano di essere cacciati dai combattenti dalle loro terre per essere sostituti con persone di origini arabe.
Washington non ha però sanzionato solo una delle due fazioni: nel mirino dell’amministrazione statunitense anche il governo di Al Bhuran, colpevole secondo gli Usa di aver usato armi chimiche contro le Rsf.

Abdel Fattah Al Burhan

Le conseguenze nella regione – Quasi quattro milioni di persone sono fuggite nei paesi confinanti con il Sudan. E così l’instabilità di Khartoum si teme possa diffondersi anche nei vicini: Ciad, Eritrea e Sud Sudan rischiano di non reggere l’aumento di insicurezza e pressione umanitaria. Ma non sono solo le migrazioni a rompere gli equilibri: con il conflitto Juba è stata privata di una delle sue principali fonti di reddito, cioè gli oleodotti danneggiati dai combattimenti che trasportano il petrolio sudsudanese a Khartoum. Non a caso è proprio in Sud Sudan che le tensioni interne sono più forti, dove, ancora una volta, la rivalità tra i due principali leader del paese hanno rischiato di causare una guerra civile.

Gli attori esterni – Nonostante Abu Dhabi neghi, gli Emirati Arabi starebbero sostenendo Dagalo e le Rsf: oro sudanese nelle casse emiratine in cambio di armi alla milizia, tra cui droni modificati per lanciare bombe termobariche. Ma a interessare è anche lo sbocco sul mar Rosso della costa sudanese, dove gli Emirati prevedevano di costruire prima della guerra un porto da sei miliardi di dollari. All’opposto, l’Arabia Saudita sostiene l’esercito regolare sudanese, così come fa l’Egitto. E lo stesso vale per l’Ucraina: la guerra tra Mosca e Kiev continua anche in Africa, dove i reparti speciali ucraini sostengono Al Bhuran e la Wagner russa arma e addestra le Rsf.

Una crisi dimenticata – In alcune zone del Sudan il Programma alimentare mondiale (Wfp) ha rilevato le condizioni per un livello cinque della scala Integrated Food Security Phase Classification (Ipc), che tradotto significa vera e propria carestia. Le due fazioni non sembrano intenzionate a sedersi a un tavolo diplomatico, entrambe determinate a ottenere una vittoria militare sul campo. E se, come probabile, la guerra durerà ancora a lungo, continuerà a farlo nel silenzio: la copertura mediatica sul conflitto in Sudan è circa 30 volte inferiore a quella per l’Ucraina. Rispetto alle crisi russo-ucraina e israelo-palestinese, ci sono giorni in cui l’attenzione su giornali e siti è di 100 volte inferiore.