Le urne di Veneto, Campania e Puglia chiudono tra poche ore – alle 15 – e poi si comincerà a contare le schede. Se tutto andrà come deve Alberto Stefani (Lega) sarà il nuovo governatore del Veneto, e Antonio Decaro (Pd) della Puglia, mentre potrebbe essere un testa a testa tra Edmondo Cirielli (Fdi) e Roberto Fico (M5S) in Campania.

L’unica cosa certa sarà l’affluenza. E ancora una volta il partito del “non voto” ne uscirà vincitore. Sì, perché, stando alle rilevazioni delle 23 di ieri – 23 novembre – la situazione è critica in tutte e tre le regioni al voto: dei 13 milioni di elettori chiamati a rinnovare governatore e consigli regionali, al momento ha votato meno del 32%. E la cosa ancora più drastica è che cinque anni fa, alla stessa ora, aveva votato un magrissimo 41%. Insomma dieci punti in meno in una percentualè già ridotta all’osso, segno che della politica alla gente importa sempre meno. D’altronde è di italica tradizione dire: “tanto non cambia niente” oppure “il mio voto non farà la differenza”. E questo è il risultato. Si potrebbe arrivare a dire che se si va avanti di questo andazzo alle prossime regionali voteranno solo i candidati.

Prima repubblica – In Italia però non è sempre stato così. A votare ci andavamo. E quasi tutti. Dopo quello che può essere definito uno dei periodi più bui della sua storia, dalla costituzione della Repubblica l’Italia ha sempre avuto un tasso di partecipazione al voto altissimo. Numeri alla mano nel 1948 il 92% degli italiani si è recato alle urne, complice forse anche il fatto che uscivamo da 20 anni di dittatura. Insomma, per tutta la prima repubblica i numeri sull’affluenza sono stati buoni, se con buoni intendiamo stare sopra all’80%. Fino al 1976, anno in cui il glorioso Partito Comunista di Berlinguer supera quota 34% sfiorando la medaglia d’oro a livello nazionale con una affluenza del 93%. Poi l’inizio della discesa. Alle politiche del 1979 si perdono tre punti e la discesa si ferma. Dal 1983 al 2001 gli italiani sono sempre più distanti – o così pare – dalla politica e infatti si perdono in 18 anni quasi sette punti, passando dall’88% al 81%. Nel 2006 si riaccende la speranza. Forse l’avvento del bipolarismo Berlusconi-Prodi e la trasformazione della campagna elettorale in una fiction fa tornare la passione ai cittadini. Il giorno dopo si contano i voti e l’affluenza sale all’84%. Ma la barca sta affondando e dal 2008 in poi è sempre peggio. L’affluenza se fosse una macchina starebbe percorrendo una discesa, senza freni, pronta a schiantarsi. Sì, perché alle politiche della XVI legislatura eravamo all’80%, a quelle del 2013 siamo passati al 75%, poi cinque anni dopo al 73% e alle ultime – 2022 – siamo arrivati al peggior risultato di sempre: 64%. In poche parole: un italiano su tre ha deciso di rimanere a casa, di andare al mare o semplicemente di disertare il voto.

I feudi – Le Regioni non nascono insieme alla Repubblica, o meglio nascono de iure, ma non de facto. Bisognerà aspettare solo il 1970 per eleggere i consiglieri delle 20 regioni della Penisola. Con le prime elezioni i dati mostrano una grande manifestazione di interesse da parte dei cittadini. Insomma alle prime regionali il tasso di affluenza minimo lo ha registrato il Molise – con un buon 80% – mentre quello più alto lo abbiamo visto in Emilia Romagna, con uno straordinario 97%. Insomma, la media delle 15 regioni al voto era del 93%. Ma dopo la prova del fuoco la partecipazione per scegliere il proprio governatore è calata di tornata in tornata e sta calando tutt’ora. Basti pensare che due anni fa l’affluenza in Lombardia e Lazio, che comunque una è la locomotiva d’Italia e l’altra è la sede della vita politica nazionale, ha avuto un declino non indifferente . Nel primo caso si è passati dal 73% del 2018 al 42% del 2023, mentre nel secondo dal 67% al 37%. In entrambi i casi -30% di voti registrati. Ora attendiamo Veneto, Campania e Puglia, ma se stiamo ai dati, di eccezioni alla regola non se ne vedono all’orizzonte.

Comunali: le tendenze – Se politiche e regionali sono navi che affondano – in termini di affluenza – la speranza dovrebbe risiedere nelle comunali, dove si dovrebbe votare la persona e non il partito. Spoiler: anche nelle città la situazione è drastica. Dal 1993 i cittadini eleggono i loro sindaci direttamente – prima votavano solo i candidati consiglieri che una volta insediati sceglievano il Sindaco – e se prendiamo cinque grandi città del Bel Paese vediamo che anche qui troviamo la situazione pari pari delle Regioni. Euforia iniziale e poi l’allontamento continuo. A Napoli nel 1993 si raggiunge il 66%, a Torino il 74%, a Milano il 76%, a Roma il 79% e a Bologna, nel 1995 però, arriviamo all’87%. Poi la caduta libera. La città partenopea ha visto un trend quasi sempre lineare. Fino al 2006 ha mantenuto l’asticella tra il 66% e il 68%, per poi scende al 48% quando è stato eletto Gaetano Manfredi. A Torino solo nel 2001 e nel 2011 si è registrato un “+”, nel primo caso di un 6% e nel secondo di un misero 2%, per poi arrivare al 2021 al 46% di affluenza. Il capoluogo lombardo dopo una parentesi positiva nel 2001 – con l’81% di affluenza e un +12% – il trend è sempre stato negativo, scendendo al 48% all’ultimo rinnovo di Sindaco e consiglio. Montagne russe capitoline. A Roma l’affluenza sale e casa che è un piacere. Nel 1997 cala di cinque punti, poi risale nel 2001 di quattro. Scende ancora nel 2006 e risale di nuovo nel 2008 – elezioni anticipate dopo le dimissioni di Walter Veltroni (Pd) – e ancora nel 2013, calate dal 70% al 51% e cinque anni dopo si registra un +5%. Nel 2021 si scende al 47%, diciamo che se continua così il trend, l’affluenza alle prossime amministrative dovrebbe aumentare. Chiudono i bolognesi. Sempre meno hanno scelto di mettere la famosa croce sul simbolo. Unico momento positivo alle comunali 2004 con un +7%. Poi sempre peggio e alle ultime amministrative – 2021 – a votare è stato solo il 51%.