Dai campi di lavoro al lavoro nei campi, a volte, il passo è breve. Nel comune di Villa Literno, fra Napoli e Caserta, è stata scoperta una nuova rete di caporalato che sfruttava il lavoro di circa ottanta braccianti, tutti in condizioni a dir poco disumane. A dirigere l’attività un imprenditore agricolo e la moglie, che nella giornata del 10 dicembre sono finiti agli arresti domiciliari con diversi capi d’accusa. Fra i principali, lo sfruttamento di lavoro pluriaggravato e l’intermediazione illecita. Oltre alle disposizioni cautelari personali, il Reparto operativo del Comando per la Tutela del Lavoro ha inoltre sequestrato quattro furgoni utilizzati per il trasporto dei lavoratori e una somma di oltre 540mila euro ritenuta profitto dello sfruttamento, trovata nel magazzino-sede dell’imprenditore.

Le condizioni di lavoro – Le indagini, svolte tra febbraio e luglio 2024, hanno ricostruito un sistema di sfruttamento consolidato, che vedeva coinvolti tra i quaranta e gli ottanta lavoratori, prevalentemente di origine indiana e senza permesso di soggiorno. Due di loro risultano anche tra gli indagati. La Procura di Napoli Nord ha gettato luce sui meccanismi di questo ennesimo caso di caporalato: dopo essere stati reclutati, i braccianti venivano trasportati ai terreni agricoli su dei furgoni per il trasporto merci, ammassati come bestie, senza alcuna misura di sicurezza.
Una volta lì, il lavoro di raccolta avveniva sotto costante sorveglianza e minacce. I ritmi erano infernali: dalle 10 alle 14 ore al giorno, sette giorni su sette, per compensi di circa 2,70 euro l’ora, o un euro a cassetta. Non era concesso alcun riposo settimanale, né la possibilità di assentarsi per malattia. La pausa pranzo di pochi minuti era consentita solo dopo aver raggiunto la quota di raccolta giornaliera. Il lavoro doveva essere svolto sotto qualunque condizione atmosferica: sotto la pioggia battente, l’unico riparo erano sacchi di plastica. Cosa ancor peggiore, sulla quale ora gli investigatori stanno cercando di fare chiarezza, i manovali erano costretti a rimanere nei campi anche durante lo spargimento dei pesticidi tossici. Chi accusava un malore, veniva minacciato di licenziamento. Dopo giornate di lavoro così estenuanti, i lavoratori venivano infine trasportati in alloggi fatiscenti. E guai a parlare, a denunciare questa schiavitù: il latifondista, probabilmente per mezzo dei suoi kapo, intimidiva i braccianti di gravi violenze fisiche, qualora avessero riportato informazioni alle forze dell’ordine.

Il fenomeno del caporalato – La complessa operazione si inserisce nel più ampio piano di contrasto al caporalato nell’agro aversano, condotto con il supporto del Nucleo Carabinieri per la Tutela del Lavoro di Napoli, dell’Ispettorato del Lavoro e dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, nella cornice del progetto “Alt Caporalato Due”, finalizzato alla tutela dei lavoratori migranti più vulnerabili. Un fenomeno di sfruttamento assai diffuso, in Italia: gli organismi sindacali stimano che nel Paese lavorino sotto caporale centinaia di migliaia di persone: circa 550.000 stimati tra campi e cantieri, secondo la Flai, la Federazione Lavoratori Agroindustria della Cgil. Una stima del British Medical Journal riporta che in un arco di sei anni in Italia sarebbero morti circa 1.500 lavoratori a causa delle condizioni di sfruttamento nei campi, spesso associate ai sistemi di caporalato.