Se ne vanno per non tornare, con una laurea a pieni voti nella valigia e un curriculum stellare. Sono i cosiddetti “cervelli in fuga”, i giovani italiani che al termine di un percorso universitario di eccellenza decidono di andare a fare ricerca e impresa all’estero. Se ne vanno perché non riescono a considerare l’Italia un posto attraente per lavorare, non abbastanza per veder fiorire le loro idee e i loro progetti. Ma perché il Paese che li ha formati, e che ha speso risorse per la loro formazione, non riesce a trattenerli? La risposta va cercata nelle riforme del lavoro che hanno attraversato la normativa sulle assunzioni e i licenziamenti. La riforma Fornero del 2012 ha reso più onerosa la flessibilità in entrata e più facile quella in uscita, ma già nel 2003 era stata la riforma Biagi a istituire più di 40 forme diverse di collaborazione, insieme al famigerato “lavoro a progetto”. La richiesta flessibilità si è trasformata in forzata precarietà, rendendo la vita difficile anche ai migliori tra i lavoratori, e spingendoli a cercare sicurezza altrove. Eppure, tra loro c’è anche chi non rinuncia a provare a tornare a casa.

Nel 2009 sono state presentate quasi 370 domande  da altrettanti cervelli in fuga per partecipare al bando del ministero dell’università e della ricerca che li avrebbe riportati in Italia, per tre anni, possibilmente sei. Sono filosofi, chimici, biologi, medici, giuristi, storici, fisici e matematici, arrivano da Oxford, Cambridge, Chicago, Londra e Baltimora, sono tornati per 40 mila euro lordi e un contratto di 3 anni come ricercatori all’università che potrebbe (sottolineiamo il condizionale) essere rinnovato per altri tre. Alla fine dello scorso anno 23 dei cervelli rientrati hanno pubblicato una lettera di protesta indirizzata al Ministero che li lasciava nell’incertezza. Perle che il nostro Paese era riuscito a far rientrare ma che a quanto pare non è capace a trattenere.

Insomma il Belpaese forma eccellenze, nonostante un sistema scolastico tra i più arretrati d’Europa. Secondo le rilevazioni Istat del 2011 la spesa pubblica per l’istruzione ha inciso sul 4,5 per cento del Pil. La media europea è del 5,5 per cento, solo la Turchia ha speso meno. «L’Italia è rimasta legata molto a lungo a un sistema scolastico tradizionale per questo il numero dei laureati non è cresciuto come negli altri paesi», afferma il responsabile istruzione dell’Ocse Andreas Schleicher. In effetti i dati sui laureati italiani sembrano vanificare gli obiettivi delle varie riforme dell’Università che si sono succedute negli ultimi anni. Nel 2011 il 44,3 per cento della popolazione tra i 25 e i 65 anni aveva al massimo la licenza media. È un indicatore dell’esigua propensione ad affrontare gli studi universitari in un contesto che non offre sbocchi occupazionali? Secondo Schleicher la risposta è da ricercare nell’utilità dei titoli accademici: «Le lauree italiane sono irrilevanti sul mercato del lavoro». Cinque anni di università non offrono più un posto di lavoro, sicuro o quantomeno ben retribuito, e la precarietà scoraggia i giovani a proseguire gli studi. In sette anni, tra il 2004 e il 2011, l’incremento dei laureati è stato poco significativo: solo il 4,7 per cento. Il senso di scoramento è ben rappresentato dai dati sulle immatricolazioni. Nel 2004 il 74 per cento dei diplomati sceglieva di proseguire gli studi all’università. A distanza di sei anni, ultimo dato disponibile, questa percentuale è calata fino al 63 per cento. Il paradosso è chiaro: nonostante tutto le università riescono a formare eccellenze, ma queste non trovano condizioni adeguate nel mercato lavorativo italiano. Tutto ciò, inevitabilmente, si traduce in fuga di cervelli.

Ecco allora aumentare in Italia il numero dei giovani che non studiano e non lavorano, i “Neet” (Not in Education, Employment or Training). Un indicatore degli effetti socio-psicologici della crisi, soprattutto sulla vita individuale dei giovani: la forza lavoro più fresca del Paese “si lascia andare” e interrompe la ricerca. Il 25,4 per cento delle donne tra i 15 e i 29 anni si trova in questo “limbo”, meno numerosa la quota degli uomini che si assesta sul 20,1 per cento. Un numero comunque più alto della media europea (15,4 delle donne 22,7 di uomini). Nel 2001 l’incremento dei Neet ha riguardato soprattutto il Centro e il Sud Italia, dove il 31,9 per cento dei giovani si bilancia con una quota più sottile del nord: 16,4. Campania e Sicilia toccano invece vette del 35%.

Luigi Caputo
Lucia Maffei
Silvia Sciorilli Borrelli
Andrea Tornago