L’Italia ha rischiato di perdere miliardi di euro di Fondi strutturali europei perché incapace di spenderli. In tempi di crisi economica e di casse vuote, un paradosso difficile da spiegare. Eppure, una ragione c’è. Più d’una, a dire il vero, e tutte tipicamente italiane.
Nel periodo 2007-2013 l’Unione europea ha previsto investimenti pari a 59,4 miliardi di euro nel nostro Paese, comprensivi di cofinanziamento nazionale. Fino a novembre 2011, però, le regioni italiane nel loro complesso erano riuscite a spendere soltanto il 15% di questi fondi. Il pericolo di perderli definitivamente è stato scongiurato dal governo Monti: sotto la gestione del Ministro per la Coesione Territoriale Fabrizio Barca la percentuale di spesa è arrivata al 37% in quattordici mesi.
La cifra non spesa – e quindi da restituire – è stata di “soli” 33,3 milioni di euro, andati persi al Progetto operativo Attrattori culturali e turismo. «Rischiavamo di perderne molti di più», fanno sapere dal Ministero, «quasi un miliardo di euro».
Per capire il paradosso di un’economia in crisi che fatica a cogliere i vantaggi derivanti dall’appartenenza alla comune famiglia europea, subendone d’altro canto la disciplina di bilancio, occorre fare una distinzione.
Quando si parla di Fondi strutturali europei, infatti, occorre separare la spesa impegnata dalle regioni – quella che le amministrazioni progettano di spendere – dalla spesa certificata. Ovvero quella effettivamente sostenuta per realizzare i progetti, che va documentata con tanto di fatture da spedire a Bruxelles. La Commissione europea impone che la cifra impegnata venga spesa e certificata in N anni +2 di margine, pena la sua restituzione. I tempi calcolati dalla Commissione, però, mal si adattano ai ritmi del ciclo italiano delle opere pubbliche.
Secondo Gianfranco Viesti, ordinario di Economia applicata alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bari, è qui il cuore del problema. «Le opere pubbliche hanno un tempo di realizzazione estremamente lungo in Italia. Un’opera di medie dimensioni richiede tranquillamente più di dieci anni di lavoro, da quando viene decisa a quando viene ultimata. I pagamenti finali si possono fare solo quando gli ultimi lotti dell’opera sono completati. Questo comporta un allungamento dei tempi totali di spesa. Il ciclo delle opere comprende la fase di decisione, progettazione preliminare, progettazione definitiva, messa a gara, esecuzione, collaudo e saldo finale. In sostanza, è un problema di regolazione», spiega Viesti.
A fronte di questa situazione, la strategia che ha consentito all’Italia di non perdere gran parte dei fondi si è concretizzata nel Piano azione coesione varato dal ministro Barca. «Il Piano ha ridotto il tasso di cofinanziamento nazionale ai progetti europei. Una mossa molto intelligente, perchè così si è ridotto il totale che fa formalmente capo ai programmi europei, senza diminuire il totale degli interventi ma riducendo invece la quota assoggettata a quelle tempistiche», aggiunge ancora Viesti. «Il contributo nazionale stornato è stato poi riallocato in un fondo parallelo, destinato ai medesimi progetti ma senza i vincoli di tempo dettati dalla Ue».
A questo escamotage contabile si sono poi combinate alcune manovre mirate, che hanno permesso di allocare in maniera più efficace le risorse disponibili. Una di queste è stata abbandonare i progetti bloccati su binari morti. Quello che prevedeva di convertire i fari di alcune regioni costiere italiane in hotel, ad esempio, è stato accantonato. Rischiava infatti di non essere portato a termine a causa dei conflitti amministrativi tra differenti livelli dello stato italiano. E tempi troppo dilatati, il più delle volte, significano restituzione dei fondi messi a disposizione dalle istituzioni comunitarie.
A progetti simili è stato assegnato un bollino rosso, mentre con altri bollini gialli e verdi sono stati classificati tutti i piani di intervento, a seconda della loro fattibilità e della loro effettiva capacità di spesa. Su 52 Programmi operativi attivi (le sezioni che racchiudono i progetti con una certa finalità), solo uno, quello degli Attrattori culturali, non ha raggiunto il target imposto dalla Commissione europea.
La riprogrammazione delle risorse così recuperate è avvenuta sia fra grandi obiettivi, sia tra singoli progetti all’interno di ciascun obiettivo. Quest’ultima è stata guidata anch’essa dallo stato di avanzamento progettuale: le opere che avevano le migliori probabilità di arrivare a compimento sono state privilegiate rispetto alle altre. La riallocazione fra grandi obiettivi, invece, è stata indirizzata in modo da favorire il potenziamento dei servizi alle persone, dell’istruzione e del trasporto ferroviario.
Il rischio di non spendere i fondi europei, però, non è ancora scongiurato. La sfida che attende il futuro governo è «spendere 31 miliardi di euro nei prossimi tre anni», fa sapere il ministro Barca. Conti alla mano quasi otto volte l’Imu sulla prima casa. La tassa introdotta dal governo Monti per stabilizzare i conti sotto la minaccia dello spread, nel novembre 2011.
Al di là dei facili populismi antieuropei, l’uso costruttivo delle risorse comunitarie potrebbe quindi contribuire ad avviare quella ripresa economica di cui l’Italia ha drammaticamente bisogno per uscire dalla recessione. Un percorso di riforme che comprenda anche lo snellimento della governance delle opere pubbliche appare a questo scopo sempre più necessario. Avere i soldi e non spenderli sarebbe un peccato imperdonabile.
Luigi Brindisi
Davide Gangale
Eva Alberti