“Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente” disse Rita Levi Montalcini quando compì 100 anni. Ne visse altri tre, lavorando alle sue ricerche, portando avanti un laboratorio e dormendo circa quattro ore a notte. Gillo Dorfles ne ha appena compiuti 103 e guarda la sua età con la saggezza di chi ha avuto tanta vita tra le mani. Quando gli hanno chiesto: “Come festeggerà, Professore?” Ha glissato. Ha preferito domandare come stesse andando la sua ultima mostra a Rovereto, se sia piaciuta e cosa ne abbia detto la stampa. Ha 92 anni Margherita Hack, l’astrofisica italiana più nota al mondo. Lo scorso dicembre ha pubblicato il suo ultimo libro, un confronto tra scienza e fede. Tre esempi di invecchiamento attivo. Straordinari, ma coerenti con quello che è un contesto sempre più ampio. Una realtà con cui la cultura, la società e il welfare devono fare i conti.

I DATI ITALIANI SU PENSIONI E ANZIANITÀ

In cifre, secondo il rapporto annuale dell’ISTAT del 2012, in Italia ogni 100 giovani ci sono 144 over 65, un rapporto che venti anni prima si fermava a 92 su 100. La speranza di vita alla nascita si è allungata a 79 anni per gli uomini e oltre gli 84 per le donne, un dato che fa del nostro Paese uno dei primi al mondo per longevità della popolazione.

Il fenomeno incide sull’economia e sul welfare, basti pensare alla riforma delle pensioni e al sistema contributivo: i requisiti stessi per il pensionamento e i coefficienti per il calcolo delle rendite sono determinati proprio in funzione dell’evoluzione della speranza di vita. Da questo tipo di previsioni dipende l’equilibrio di lungo periodo di istituti ed enti previdenziali.

Secondo uno studio Istat pubblicato lo scorso mese di aprile: nel 2011 l’Italia ha speso più di 265 milioni di euro per la spesa pensionistica totale, praticamente quasi il 17% del PIL. Le pensioni di vecchiaia assorbono il 71,6% di questo costo, praticamente 190 milioni.

In un’ottica previdenziale, lo squilibrio fra l’invecchiamento della popolazione e la contemporanea precarietà dei giovani preoccupa non poco. Se gli anziani di oggi sono abbastanza garantiti, grazie ad una previdenza obbligatoria “generosa” e ad un percorso lavorativo stabile, non si può ancora dire la stessa cosa per i numerosi anziani di domani.

L’ALLARME DEL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE

L’allungamento della vita media rischia di far saltare i conti del welfare anche secondo il Fondo monetario internazionale che lo scorso anno ha lanciato un vero e proprio «allarme longevità». Nel Rapporto sulla stabilità finanziaria globale del 2012, sottolinea che «se la vita media nel 2050 si allungherà di 3 anni in più rispetto a quanto previsto oggi, il già ampio costo dell’invecchiamento della popolazione aumenterà del 50%».

Il Fmi afferma, inoltre, come in questo ambito «una riforma essenziale» sia quella di procedere ad «un aumento dell’età pensionabile» in parallelo all’aumento delle speranze di vita. «Potrebbe essere imposto dagli Stati, ma si potrebbero anche incentivare le persone a ritardare l’età di pensionamento. Perché questo aiuta in due modi: da un lato si allunga il periodo in cui si accumulano risorse e dall’altro si accorcia quello in cui si ricevono prestazioni. E ove non sia possibile agire su questo versante bisogna incrementare la flessibilità sulle prestazioni agli enti pensionistici: dove non si possono alzare contributi o età pensionabili, le prestazioni potrebbero dover essere abbassate».

LA RIFORMA FORNERO

In Italia, i due criteri di funzionamento del sistema previdenziale erano la pensione di anzianità e quella di vecchiaia, entrambe radicalmente modificate dalla riforma del Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Elsa Fornero. Dal 1° gennaio 2012, infatti, la prima, che si può ottenere al raggiungimento di un determinato numero di anni di contribuzione prima dell’età pensionabile, non esiste più ed è stata sostituita dalla pensione anticipata. In sostanza non bastano più i 40 anni di servizio, ma ce ne vogliono 42 e un mese per gli uomini e 41 e un mese per le donne. Soglie che salgono di un mese nel 2013 e nel 2014. Con le nuove regole scompaiono anche il meccanismo delle “quote”, che sommava l’età anagrafica a quella contributiva; e quello della “finestra mobile”, cioè l’attesa di altri 12 mesi al raggiungimento dei requisiti della pensione. In questo senso, con la riforma Fornero, potranno andare in pensione a 64 anni solo un dipendente privato con 35 anni di contributi, che con il vecchio sistema delle “quote” avrebbe raggiunto i requisiti il 31 dicembre 2012 (quota 96 sommando gli anni di anzianità e l’età anagrafica) e una lavoratrice del settore privato che, sempre entro il 31 dicembre 2012, ha 20 anni di contributi e 60 anni d’età.

Anche la pensione di vecchiaia, che si può ottenere al raggiungimento di una determinata età anagrafica, è stata modificata. Dal 2012, infatti, gli uomini devono raggiungere i 66 anni per andare in pensione, un immediato innalzamento del limite di un anno rispetto al passato. Per le donne, invece, c’è una distinzione: le lavoratrici dipendenti vanno in pensione a 62 anni, le autonome a 63 anni e 6 mesi. Questa soglia progressivamente aumenterà negli anni fino alla completa equiparazione ai 66 anni degli uomini nel 2018. In tutti i casi è necessario avere un’anzianità contributiva di almeno 20 anni. E nel prossimo futuro la situazione potrebbe cambiare ulteriormente. Grazie al principio dell’adeguamento dell’età pensionabile all’allungamento delle aspettative di vita è già sicuro che dal 2022 si andrà in pensione a 67 anni. La soglia, infatti, verrà adeguata all’aumento della vita media in base ai date forniti dall’Istat con cadenza triennale.

L’INVECCHIAMENTO ATTIVO

La legge è fatta, ora tocca cambiare le abitudini. Non si può pensare che chi rimane a lavorare fino a 67 anni possa svolgere le stesse attività di quando ne aveva 40, ma nemmeno si può ritenere che chi supera i 65 non possa più portare il suo contributo lavorativo alla società. Solo il 25% dell’invecchiamento dipende da condizioni genetiche, tutto il resto lo fa il modo in cui viene condotta l’esistenza e come lo Stato e le imprese si rapportano a questa nuova situazione demografica.

Il tema dell’invecchiamento attivo è da tempo all’ordine del giorno del dibattito sul futuro del modello sociale europeo. Non si tratta solo di affrontare un problema di sostenibilità macroeconomica. Di capire come il sistema di welfare reagirà ad un processo di invecchiamento della popolazione destinato a durare ancora a lungo. Si tratta anche di valorizzare le risorse lavorative aggiuntive che vengono dal prolungamento della vita e dal miglioramento delle condizioni di salute in età anziana. Studi recenti dimostrano che il prolungamento della vita lavorativa può dare un contributo decisivo per prevenire il declino cognitivo legato all’invecchiamento.

LA GERMANIA E IL CASO BMW

Anche il Germania si è deciso di portare gradualmente l’età pensionabile dai 65 ai 67 anni. Nel solo settore metalmeccanico tedesco, che conta 3,4 milioni di persone, gli operai con più di 60 anni sono ormai 152mila, aumentati dell’80% tra il 2000 e il 2010, spiega l’associazione di categoria Gesamtmetall. Un esempio di buone pratiche per l’invecchiamento attivo viene proprio da questo Paese, nel caso specifico da uno stabilimento della BMW. Nel 2011 la casa automobilistica ha presentato una fabbrica di automobili fatta su misura per operai “anziani” dei quali il gruppo tedesco non vuole perdere l’esperienza. Situata nel sud della Germania, a Dingolfing, l’impianto ha una catena di montaggio con postazioni di lavoro ergonomiche dotate fra l’altro di schienali, buona illuminazione e ritmi più lenti rispetto a quelli di altre fabbriche. Nell’impianto lavorano operai di ogni età, ma la fabbrica è dedicata soprattutto a quelli più anziani ed esperti che il gruppo automobilistico bavarese spera così di mantenere al lavoro più a lungo anche grazie a camere per il relax e mensa salutista.

Maria Chiara Furlò