Fino a un anno e mezzo fa produceva abiti di sartoria e dava lavoro a dieci persone. Poi la crisi. Clienti che non pagano, l’iva che incombe e le banche che non fanno più credito. Giuseppina Virgili, 54 anni, è una dei molti piccoli imprenditori che sono stati costretti a chiudere l’attività di una vita.
Più di 35 imprese al giorno, quasi 1.000 al mese, per un totale di circa 9.000 fallimenti in un anno. E’ questo il bilancio delle aziende italiane che hanno chiuso i battenti lo scorso anno lungo tutta la penisola. Un quadro preoccupante che diventa ancora più cupo se si pensa che sono 50.000 le aziende fallite dall’inizio della crisi (gennaio 2008) sino alla fine del 2012, come emerge dall’incrocio dei dati di due studi compiuti da Cribis D&B e dalla Cgia di Mestre. Un’emorragia che non conosce tregua e che costa al Made in Italy – ovvero tutti quei settori industriali tradizionalmente contrapposti alla grande impresa – ben 10.000 aziende all’anno. Tutta colpa dell’euro sopravvalutato che ha penalizzato le esportazioni? O della saturazione del mercato occidentale che ha tutto e, forse, troppo? Per alcuni il motivo che ha costretto molte aziende a portare i libri in Tribunale è la concorrenza sleale delle aziende che non pagano i contributi ai propri dipendenti e delle mafie che fatturano 140 miliardi di euro l’anno. C’è chi crede, invece, che la crisi non sia altro che il contrappasso di un sistema che ha pensato di arricchirsi con la delocalizzazione e, al contrario, si è scavato la fossa con le proprie mani. Per tutti questi motivi o anche per uno soltanto, il Made in Italy che negli anni Sessanta trionfava sui mercati occidentali è oggi, inevitabilmente, in piena recessione.
Eppure la crisi, anche se di proporzioni così vaste come quella attuale, non è un evento così raro nel ciclo economico. Come mai il sistema industriale italiano non ha saputo assorbirla in maniera meno traumatica? Quali scelte – a livello politico, economico e manageriale – hanno influito sulla situazione attuale?
Dubbi sulla tenuta di un sistema manifatturiero anomalo come quello italiano erano emersi già da un decennio. Ci si interrogava allora sulle risorse e sulle possibilità di crescita di un’economia che – unico caso insieme alla Germania – aveva una percentuale di occupati nell’industria superiore al 20%, con la particolarità, rispetto ai tedeschi, di una netta predominanza di aziende di piccole dimensioni rispetto a colossi industriali. Le piccole e medie imprese (PMI), sviluppatesi nei cosiddetti distretti industriali, hanno funzionato da “secondo motore dello sviluppo italiano”, come dice l’economista Giacomo Beccatini. Con un unico limite: operare in settori tradizionalmente meno strategici per un Paese, come il tessile, l’abbigliamento e le calzature. Sfruttando le peculiarità tipiche derivanti dalla loro forma – importanza del capitale umano, produzione flessibile per nicchie di mercato, creatività progettuale, elasticità organizzative – le imprese del Made in Italy hanno dato vita a numerosi casi di successo, aumentando il loro peso economico e dando vita a un modello economico la cui importanza e dignità è riconosciuta da osservatori e studiosi stranieri (il cosiddetto quarto capitalismo). In contemporanea, però, non hanno rimpiazzato la progressiva perdita di peso dell’industria tradizionale nei settori strategici – informatica, chimica, aerospazio, automotive – dove si gioca il futuro di un Paese, avvenuta a causa di una serie di scelte sventurate da parte di politici e manager che hanno portato a privatizzazioni affrettate, diversificazioni avventurose e a una corsa alla finanza che oramai ha preso il sopravvento sull’economia reale.
Il “secondo motore dello sviluppo italiano” non è stato in grado di trascinare il nostro paese fuori dalle secche di una crisi senza precedenti privata del sostegno del motore principale rappresentato dalla grande industria. Lo aveva già detto all’inizio del 2003 il sociologo Luciano Gallino, parlando di “scomparsa dell’Italia industriale”. E sulla scia di Gallino anche gli economisti Giuseppe Berta e Marcello De Cecco hanno evidenziato come il problema dell’industria italiana sia di natura dimensionale. “Senza grandi imprese – anzi senza imprese che tendano al massimo dimensionamento possibile – non c’è ricerca di alto profilo, simbiosi fra università, scienze e sistemi aziendali dinamici, non ci sono insomma le condizioni per partecipare al mondo del capitalismo contemporaneo”, dice Marcello De Cecco.
E quando si passa dalle affermazioni di studiosi ed economisti all’analisi della gestione concreta di una piccola azienda, ci si accorge di quali siano i problemi di natura quotidiana che affliggono i piccoli imprenditori e gli impediscano di fungere da traino per il Paese.
Il passaggio del testimone tra due generazioni è uno dei momenti più critici della vita di una piccola impresa specialmente se familiare: su 100 aziende soltanto 15 sopravvivono alla terza generazione. Molte scompaiono ogni anno perché non sono in grado di superare i problemi e le difficoltà che comporta la trasmissione dell’azienda.
Il forte accentramento decisionale nella figura dell’imprenditore rende problematica la sua sostituzione. E non aiuta nemmeno il coinvolgimento emotivo derivato dai rapporti familiari, un coinvolgimento che spesso porta a prendere decisioni che non puntano al bene dell’impresa. Emblematico in questo senso è la saga della famiglia Caprotti, proprietaria di Esselunga che se non può essere considerata ora una PMI, nasce comunque come tale.
Il passaggio di consegne è legato strettamente anche alla trasmissione delle conoscenze. Le PMI hanno una lunga tradizione di capacità e caratteristiche peculiari acquisite grazie all’attività lavorativa. Il passo importante, che non tutte le PMI sono in grado di fare, è validare e formalizzare queste conoscenze per poterle trasmettere alle generazioni seguenti in modo da preservare i valori chiave dell’azienda stessa.
Ma il know-how non può prescindere dalle tecnologie, risorsa fondamentale per sopravvivere nel panorama della concorrenza. Il che significa che chi vuole restare in gioco deve investire tanto e in fretta.
Ecco allora che per la sopravvivenza delle PMI entrano in gioco le banche e la necessità di avere accesso al credito. Quello che spinge i piccoli imprenditori a rivolgersi alle banche è il bisogno per molti di loro di sostenere l’azienda in crisi e integrare la mancanza o la riduzione delle entrate. Oppure c’è chi pensa a nuovi investimenti per rilanciare l’attività. Secondo un’indagine condotta da “Fondazione Impresa” su un campione di 1.200 imprese con meno di 20 addetti, quasi una piccola impresa su due ha riscontrato difficoltà nell’accesso al credito. Come quella di Giuseppina Virgili: “A me servivano trentamila euro per il campionario e non mi sono mai stati erogati nonostante le garanzie”. Questo è stato l’epilogo per la sua azienda. Ma Giuseppina non si è arresa. Ripartendo dall’elemento umano: ha fondato il Copii, il Comitato Piccoli Imprenditori Invisibili che offre consulenza legale e psicologica a chi è strozzato dalla crisi. “Dovevo trasformare la sconfitta in qualcosa di buono. Il nostro obiettivo è incontrare il premier e il ministro Fornero per studiare insieme delle soluzioni. Ma è l’aspetto umano quello più importante”.
Stefania Cicco
Francesco Loiacono
Maria Elena Zanini