Il minatore sta per uscire dalla stanza quando si sente rivolgere queste parole: «In bocca al lupo per il vostro sciopero». Gliele rivolge il presidente della commissione esaminatrice di una prestigiosa scuola di ballo, seduto dietro una scrivania in legno scuro.
Il minatore annuisce e se ne va.
È solo la scena di un film (Billy Elliot, 2000, di Stephen Daldry), ma è anche la fotografia esatta delle differenze sociali che c’erano nell’Inghilterra di Margaret Thatcher. La prima donna ministro nella storia del Regno Unito è passata alla storia come artefice di una politica economica a svantaggio delle classi sociali meno abbienti: poche tasse per i ricchi, linea dura con i sindacati – e l’intransigenza dimostrata durante lo sciopero dei minatori del 1985, sfondo della pellicola di Daldry, ne è l’esempio più famoso – e soprattutto tagli al sistema di welfare. All’indomani della sua scomparsa, l’8 aprile 2013, il Guardian ha scritto di lei: «Da viva ha segnato la storia britannica degli ultimi trent’anni, da morta potrebbe continuare a segnarla per altri trenta». Il 10 aprile l’autorevole quotidiano britannico si è spinto oltre, pronosticando che «la più importante eredità di Margaret Thatcher nel lungo periodo è probabilmente l’enorme aumento delle disuguaglianze da lei provocato».
È indubbio che la politica di Thatcher abbia avuto contraccolpi negativi a livello sociale. Durante la sua permanenza a Downing Street l’indice della disuguaglianza, il cosiddetto coefficiente di Gini, passa dallo 0,253 del 1979 allo 0,339 del 1991 (fonte: newstatesment.com). Il tasso di disoccupazione si mantiene a livelli alti, dal 5 al 10 per cento, penalizzando soprattutto i giovani. L’allargamento del divario tra chi ha un reddito alto e chi parte svantaggiato era del resto inevitabile dal punto di vista ideologico della Lady di Ferro, che come maestro aveva il Nobel per l’economia Friedrich von Hayek, sostenitore della centralità del mercato. La sua linea Thatcher l’aveva del resto annunciata chiaramente in campagna elettorale, dichiarando di sezione in sezione «Io voglio molti milionari e molti falliti», chiara sintesi del capitalismo.
Eppure, limitare a questa analisi l’inquadramento del Thatcherismo sarebbe riduttivo. La povertà sotto Thatcher è aumentata, senza dubbio, ma solo da un punto di vista relativo. Anche il potere d’acquisto delle famiglie in termini reali è cresciuto, come testimoniano i dati sulle case di proprietà: nel 1981 tra Inghilterra e Galles ci sono 10,2 milioni di proprietari, nel 1991 sono saliti 14,9 milioni. Thatcher, che puntava a una vera e propria “democrazia di proprietari”, forzò i Comuni a mettere sul mercato gli immobili sfitti e non fruttiferi a prezzi agevolati per le famiglie. Molti inglesi contrassero mutui pur di comprare la casa, soggetti a un tasso di interesse che la Lady di ferro peraltro si sforzò di tenere basso.
C’è poi una precisazione da fare sulla politica di contenimento della pressione fiscale per i redditi più alti. I tagli alle tasse non furono rivolti solo ai più ricchi: tutte le aliquote furono riviste, e tutte le fasce di reddito ne beneficiarono. Il vantaggio risulta solo proporzionalmente più evidente per i più ricchi, che in qualità di imprenditori si trovarono con più risorse a disposizione. E i risultati non si fecero attendere. Lo stesso epitaffio di David Cameron per la Primo Ministro conservatrice ha il sapore di un elogio misto a una difesa: «She didn’t just lead our country, she saved our country».
Ricchi e poveri nell’era Thatcher sono categorie non così schematiche. Da una parte l’aumento delle disuguaglianze, cioè l’aumento della distanza reciproca. Dall’altra il miglioramento sostanziale delle condizioni di vita dei più poveri, con l’aumento del potere d’aquisto.
Ma è giusto? Meglio più poveri e più uguali gli uni agli altri, o tutti più ricchi ma in una società con forti disuguaglianze? La risposta Margaret Thatcher l’aveva chiara. «L’idea di Thatcher – sintetizza Massimo Amato, docente associato di Storia economica all’Università Bocconi – è che le disuguaglianze siano un po’ necessarie. Se l’economia cresce, una distribuzione del reddito diseguale porta comunque più reddito ai poveri, perché la torta è più grande». La visione opposta, quella socialista, è stata peraltro oggetto di una durissima ed esplicita critica da parte della Primo Ministro durante il suo ultimo discorso alla Camera dei Comuni, quando disse che i socialisti «pur di vedere i ricchi meno ricchi preferiscono vedere i poveri più poveri».
La parte del pensiero conservatore abbracciata da Margaret Thatcher è in accordo invece con il filosofo statunitense John Rawls (1921 – 2002), che in A theory of justice (1971, trad. it. 1982) teorizza il «principio di differenza»: le ineguaglianze economiche e sociali verranno tollerate soltanto se apporteranno dei vantaggi ai gruppi più svantaggiati.
E sotto Thatcher i vantaggi ci furono. Perché non si trattava solo di ideologia, ma anche di strategia economica. «La politica di Thatcher, ripresa anni dopo anche da Bush figlio, era finalizzata a una sorta di “sgocciolamento” del benessere», spiega Cosimo Magazzino, ricercatore alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma Tre e autore del libro La politica economica di Margaret Thatcher (Franco Angeli). «I tagli fiscali per i poveri si trasformano solamente in consumi, o al limite in risparmi. Il taglio delle tasse per un ricco riguarda somme maggiori, che il ricco ha la possibilità di investire per creare occupazione. Il benessere in questo modo “sgocciola” anche verso i poveri».
L’idea alla base di questa strategia, in fondo, è agevolare chi ha già dimostrato di saper meglio gestire i soldi. Con buona pace delle disuguaglianze.
Lucia Maffei