Due vasi comunicanti. Un litro d’acqua esce, uno entra. Ogni tanto, nel passaggio, si perde un po’ di liquido. Il mercato del lavoro italiano si presenta così. Non un rigagnolo, ma nemmeno un fiume in piena. Uno stagno, piuttosto. Di certo meno «inclusivo e dinamico» di quanto immaginato dalla legge Fornero. Però, ideologie a parte, i numeri incrociati dei dieci mesi dall’entrata in vigore raccontano una riforma non dannosa. Semmai timida sui licenziamenti e lenta nello stabilizzare i precari.

Dati ministeriali e calcolatrice alla mano, il saldo 2012 tra i rapporti di lavoro attivati (leggi “assunzioni”) e quelli cessati è di 119mila posti. Un numero contenuto, soprattutto perché è il risultato, oltre che dei licenziamenti, anche di dimissioni, scadenze di contratti e pensionamenti. Che lascia comunque ai margini del mondo del lavoro 7 milioni e mezzo di persone. L’impiegata rimasta con lo scatolone in mano, l’operaio in cassa integrazione, il forzato del part-time, la giovane a caccia di annunci. E gli sfiduciati, quelli che hanno proprio smesso di cercare: in Italia sono tre volte la media europea. Così, anche un tasso di crescita dell’occupazione minimo come quello della Germania (+0,7 percento secondo l’International Labour Organization) sembra alto in confronto al nostro -2.

A quasi un anno dalla riforma Fornero, tentare un primo bilancio è possibile. A partire dalla questione precari. «Non è stata scelta la strada ambiziosa di diminuire i tanti contratti flessibili presenti nel sistema – è il commento di Maria Teresa Carinci, docente di Diritto del lavoro alla Statale di Milano – Al contrario, il testo si limita a un intervento di manutenzione su una serie di figure contrattuali esistenti, che riduca il ricorso al tempo determinato e favorisca l’indeterminato».

Nel quarto trimestre 2012, le regioni che fanno parte del Network SeCO (i due terzi del totale) hanno registrato non un semplice calo dei contratti intermittenti – un dimezzamento – ma una loro «importante attrazione nell’area dei contratti di lavoro a tempo determinato o indeterminato». E «il contratto a tempo determinato si conferma sempre più un canale privilegiato d’accesso al contratto a tempo indeterminato» (+19 percento rispetto ai mesi luglio-settembre). Anche grazie ai 12mila euro concessi alle aziende da ottobre per ogni contratto a firma di una donna o di un giovane che smette di essere precario.

Un accenno di stabilizzazione, quindi. Da cui però resta fuori l’apprendistato, che pure nella riforma aveva meritato un capitolo a sé. Diventando perfino oggetto di un accordo con la Germania per mandare lì alcuni nostri apprendisti. Con il grembiule da cuoco nelle cucine dei ristoranti tedeschi, nelle sale operatorie con il bisturi in mano. Poi la scoperta: i contributi non verranno azzerati del tutto, come promesso ai datori, che dovranno comunque versare quelli per gli ammortizzatori sociali. E le Regioni sono in ritardo nel tradurre la normativa nazionale.

Sembra di parlare di una riforma diversa, tutta da rifare, se si ascoltano le voci degli imprenditori raccolte da Gi Group. Le riassume Stefano Colli-Lanzi, presidente dell’Osservatorio tematico della multinazionale: «La legge Fornero ha limitato l’uso di determinati strumenti, ma non ha indicato le alternative possibili». La stretta sulla precarietà senza l’incentivo all’occupazione stabile, insomma. E con una disciplina del licenziamento rimasta «incompiuta». Che significa capace di lanciare il sasso, salvo poi ritirare la mano. «Non derivano tutti dalla mia riforma», ha detto la ministra del lavoro Elsa Fornero dei 43mila licenziamenti dell’ultimo trimestre 2012. Appunto. Nei giorni del passaggio in aula, Confindustria aveva appiccicato alla legge 92 l’etichetta di «boiata» proprio per questo.

Nel linguaggio della riforma, «adeguare alle esigenze del mutato contesto la disciplina del licenziamento» significa trasformare il rientro del lavoratore mandato via per motivi disciplinari o economici, in modo illegittimo, in un’eccezione. Al suo posto, un risarcimento in denaro. Le aziende apprezzano. Il problema sta in uno strumento complicato e confuso, come spiega Renzo Cristiani dell’Osservatorio sulla riforma creato dall’Associazione giuslavoristi italiani. «I veri, drammatici problemi nascono da incertezze e opinioni contrapposte dei magistrati su molteplici nodi procedurali: il nuovo procedimento è obbligatorio? Le domande diverse dalla tutela reale vanno giudicate inammissibili o soggette a un cambiamento di rito? E questi sono solo alcuni esempi». Quanto ai tempi per arrivare alla sentenza, «si respira un’aria di maggiore rapidità, visto che alla corsia preferenziale sono ammessi anche i casi in cui è previsto solo l’indennizzo. In realtà, tra fase sommaria e opposizione, non è cambiato granché. In più, è probabile che ci saranno ingolfamenti».

Fin qui gli ostacoli del percorso. Che, tra l’altro, non porta sempre al risultato caldeggiato dalla nuova legge. «Sono aumentate le condanne al risarcimento, previste per i licenziamenti economici. Mentre non esiste ancora una linea chiara su quelli disciplinari: l’impressione per ora è che, nei casi in cui il giudice dichiari l’illegittimità, ci sia un certo conservatorismo interpretativo che spinge soprattutto verso il rientro del lavoratore». Ottobre, Tribunale di Bologna. Il primo ricorso con il rito Fornero si conclude con il dipendente che torna in azienda. La causa del licenziamento c’è stata, ma non era così grave da giustificare la perdita del posto. Una sentenza che, nello sciogliere il legame tra esistenza del fatto e allontanamento dal lavoro, rispolvera il vecchio articolo 18. Se questa è una riforma.

Giuliana Gambuzza