Tredici agosto 1961, una domenica. Il cielo sopra Berlino sa di afa e fuliggine, un grigio asfittico spezzato da un’unica linea nera, metallica. L’ultima grata di filo spinato è stata alzata sopra il muro di cemento che corre lungo Bernauer Straße e le altre strade e piazze che costituiscono dal 1945 il confine tra le due metà di Berlino. La barriera è alta più di tre metri ed è dipinta di bianco per trattenere le impronte delle mani e dei piedi di chi prova a scavalcarlo. È l’embrione, rudimentale ma già mortalmente efficace, di quello che passerà alla storia come «il Muro» per antonomasia, a un tempo simbolo e risultato della Guerra Fredda che dal 1945 divise le democrazie occidentali – alleate degli Stati Uniti – dalle democrazie popolari dominate dall’Unione sovietica e che cadde, travolto dal crollo dell’Urss, il 9 novembre 1989, trent’anni fa, aprendo un nuovo capitolo della storia europea e mondiale. E l’avverbio “mortalmente” va inteso nel suo senso letterale. Nei 28 anni della sua esistenza sono 136 le persone che uccise tentando di scavalcarlo. Come Ida Siekmann, che il 22 agosto si lancia dalla finestra del suo appartamento con l’idea di atterrare a ovest del muro, ma muore sul colpo.

Ventotto anni – È l’inizio di uno stillicidio durato 28 anni, fino a quel colpo di pistola sparato al ventenne Chris Gueffroy, il 6 febbraio 1989. Chris è stato «l’ultimo fuggiasco ucciso nel tentativo di superare gli impianti di confine della DDR», come recita la stele eretta in suo ricordo nel 2003, sulla banchina del canale Britzer Zweigkanal (al confine tra Berlino Est e Ovest), nel punto in cui il giovane perse la vita. Il Muro, emblema di un mondo spaccato a metà, dell’incomunicabilità politica e ideologica «tra un Occidente libero e un Oriente oppressivo», come avrebbe detto il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy, fu costruito per frenare l’esodo della popolazione dalla Repubblica Democratica Tedesca (Germania Est) – Paese satellite dell’Unione sovietica – verso la Repubblica Federale di Germania (Germania Ovest), più ricca e libera. Tra il 1949 e il 1961, quando la barriera fu alzata, più di 2,6 milioni di tedeschi erano fuggiti dall’Est, un travaso di ingegni e competenze nella parte più dinamica del Paese. A scappare erano stati adulti, professionisti, ma anche i giovani, di cui la Germania Est e i suoi protettori sovietici avevano più bisogno. Come ha spiegato Christian Blasberg, docente di Storia contemporanea all’università Luiss Guido Carli nel corso di un convegno organizzato a Roma, «solo con il muro l’Unione Sovietica poteva trattenere la gioventù nell’Est tedesco e costruirvi il regime socialista con il contributo di quella parte di popolazione più vitale ed energica».

«Protezione antifascista» – Così, per prevenire il collasso economico e sociale del Paese, il governo della Ddr decise di chiudere l’ultima finestra rimasta aperta nella cortina di ferro che divideva in due l’Europa. Fu alzato il Muro, che il regime sovietico chiamò “barriera di protezione antifascista” per rimarcare la distanza dell’Est tedesco da un Occidente ritenuto schiavo del capitalismo e dell’ideologia fascista. Lastre di cemento armato affondavano dentro Berlino come lame, correndo per oltre 156 chilometri attorno ai quartieri occidentali della città, che divennero un’isola capitalista in un mare comunista. Al di là del confine visibile, a Est, la “striscia della morte” intrappolava dentro trincee, letti di chiodi, mine, reticolati, mitragliatrici, cani e poliziotti, chiunque provasse a fuggire dalla segregazione. Non riuscì, però, a impedire a migliaia di persone di sfidare il pericolo. Alcuni si nascosero nelle automobili, altri strisciarono all’interno di tunnel scavati da squadre di tenaci volontari; altri ancora percorsero a nuoto lo Sprea, con tuta da immersione e boccaglio da snorkeling. Un’ora e mezza sott’acqua per sfuggire alla morte e abbracciare la vita.

La caduta – Ma le ideologie e le barriere che le incarnano non hanno il potere di dividere per sempre. Nel 1989 un autunno di manifestazioni politiche, nate dal nuovo corso riformista instaurato nell’Unione sovietica dal segretario del Pcus Mikhail Gorbacêv, creò forti pressioni sul governo della Germania Est affinché concedesse maggiore libertà di spostamento alle persone. Con non pochi sforzi, le autorità occidentali riuscirono a ottenere che il transito tra le due Berlino venisse facilitato, in cambio d’ingenti aiuti in marchi federali erogati al governo comunista, il cui sistema economico era in crisi profonda. Il Muro iniziava a creparsi. La sera del 9 novembre Günter Schabowski, severo portavoce del governo della DDR, nel corso di una conferenza stampa rispose con due brevi frasi ai giornalisti che lo interrogavano sulla presunta apertura del Muro. Lo si poteva davvero oltrepassare in qualsiasi momento, come si diceva? «Ab sofort» (Da subito!), disse Schabowski. E ancora: «Unverzueglich» (Immediatamente). Il confuso funzionario aveva frainteso le parole sussurrategli poco prima dal suo capo, Egon Krenz, di fretta, in un corridoio: il segretario generale del partito d’Unità Socialista (Sed, il partito unico che governava la Ddr) gli aveva accennato al progetto di aumentare il numero di passaggi tra Est e Ovest nel Muro, ma nessuna decisione era stata ancora presa formalmente. La cantonata di Schabowski scatenò la corsa dei tedeschi orientali ai posti di blocco della barriera, che si aprirono senza opporre resistenza. Nel giro di pochi mesi un’ondata rivoluzionaria travolse l’Europa centrale e orientale, portando al progressivo rovesciamento dei regimi comunisti. Polonia e Ungheria furono i primi Paesi aderenti al Patto di Varsavia ad affrancarsi dal dominio sovietico. Dopo di loro, anche Cecoslovacchia, Estonia, Lituania, Lettonia e Romania insorsero liberandosi dal giogo di Mosca e determinandone il collasso. Il 26 dicembre 1991 l’Unione Sovietica fu definitivamente sciolta.