«È un bel guaio» dice Francesco Iacovizzi di Canapa’s Kingdom mentre toglie dagli scaffali prodotti con la foglia a 7 punte disegnata sull’etichetta. «Ma questa è follia – continua – Ho investito tutto in questo negozio, se ci vietano la vendita dei prodotti della canapa, possiamo chiudere». Francesco ha aperto meno di un anno fa un negozio di cannabis light a Milano. In un anno, il suo fatturato ha raggiunto una cifra compresa tra i settanta e i centomila euro, con circa l’80% degli introiti legati ai prodotti a base di canapa. Ricavi che potrebbero dissolversi da un momento all’altro, dopo che la sentenza della corte di Cassazione emessa giovedì 30 maggio ha di fatto vietato la vendita di prodotti “sospetti” derivanti dalla pianta.

La sentenza della corte – Per la Corte suprema, da fine maggio è considerato reato il commercio o la cessione di questi prodotti. Con la sentenza si è stabilito che «la commercializzazione di cannabis sativa legale e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante agricole». In Italia, prima che la magistratura si esprimesse sul tema, la commercializzazione della canapa light era concessa grazie a un “buco” nella legge 242 del 2016. Il via libera era solo per la pianta di varietà sativa, che si distingue per un valore di Thc compreso tra lo 0,2 e lo 0,6% e quindi con un potere drogante quasi nullo (un normale spinello ne contiene dal 5 all’8%). Come si traduce questa sentenza per i commercianti? Di fatto, non dovrebbe avere effetti immediati e diretti sui negozi già aperti, ma spetterà al giudice analizzare caso per caso e stabilire, attraverso controlli e sequestro di materiale, se i prodotti in vendita siano dotati di effetti “droganti” o meno. Dalla Cassazione, intanto, si attendono ancora le motivazioni della decisione, che dovrebbero arrivare tra 90 giorni.

Gli effetti sui commercianti – Ad oggi, i negozi di cannabis light sono oltre 800 in Italia, e Milano è capofila nelle vendite. La sentenza della Cassazione potrebbe avere effetti devastanti su un mercato che solo fino a poco tempo fa era considerato promettente, in espansione e giovane. Si, perché questo ambito costituiva un’attrattiva soprattutto per i giovani, che speravano in prospettive di ampliamento delle attività di questo mercato. Andrea (nome di fantasia), 27 anni, è uno dei tanti che ha scelto di investire in questo settore e ha aperto un negozio di cannabis legale solo quattro mesi fa, in un quartiere residenziale a nord di Milano.

La sua scelta, a differenza di altri imprenditori milanesi, è stata quella di tenere aperta la propria attività, ma solo dopo aver consultato un legale. «Tutti i prodotti che vendiamo sono privi di efficacia drogante, me lo ha assicurato il mio avvocato – spiega –. La gente che viene da noi in negozio, lo fa soprattutto per comprare gli oli di canapa, che hanno un potere rilassante, ma non drogante, dovuto alla presenza di una sostanza chiamata Cbd». Un componente con effetti diversi da quelli provocati dal Thc, contenuto in dosi ben più massicce nella canapa di tipo “Indica”. In negozio, si vendono prodotti che vanno dal concime al terriccio per la coltivazione fai-da-te, alle piantine considerate come ornamentali, agli oli utilizzati dalle donne per alleviare i dolori mestruali o dagli insonni per il loro potere rilassante. L’attività ha fruttato così bene, da permettergli di rientrare dell’investimento iniziale di 30 mila euro. Anche solo un sequestro di materiale per controlli potrebbe però costargli caro, addirittura la chiusura. «Non ho studiato – continua Andrea – ho provato a fare il saldatore ma non faceva per me. L’idea era quella di aprire altri negozi in franchising, e di iniziare a coltivare. Se per legge fossimo veramente costretti a chiudere, andrei in Spagna, dove il consumo di fumo è più libero, ma per ora non chiudo».

Le proteste – Dello stesso parere è anche Francesco Iacovizzi, che al contrario ha iniziato una campagna per protestare simbolicamente contro la decisione della Cassazione. La saracinesca mezza abbassata lascia pensare che il negozio sia chiuso, ma sulla vetrina i cartelli chiariscono le ragioni della scelta con la scritta: “saracinesca ½ chiusa per protesta contro le notizie sensazionalistiche” e ancora “Giornali bugiardi! La Cassazione proibisce la vendita di sostanza drogante, la cannabis light venduta in questi negozi non la contiene”. Sul vetro, paginate di quotidiani nazionali che spiegano gli effetti della decisione, e lo stesso testo della sentenza della corte suprema dello scorso 30 maggio. «Io non chiudo, anche se il suggerimento che viene rivolto a noi commercianti è quello di chiudere, per tutelarci – commenta. Dagli scaffali sono però sparite le infiorescenze, gli oli e tantissimi prodotti che prima riempivano il negozio. «Questa è una follia. Io non cerco escamotage per scappare dalla legge, l’unica soluzione è essere pazienti e aspettare le motivazioni della Cassazione».

«La legge è scritta male ed è aperta a mille interpretazioni – continua Jacovizzi – , tantissimi commercianti adesso vorrebbero unirsi per lanciare una class action contro questa decisione, io sono intenzionato ad aderire».
La scelta di opporsi non è solo una presa di posizione: le conseguenze di questa sentenza potrebbero devastare un intero settore in crescita: «Nella nostra attività, tra uffici e riders, lavorano 12 collaboratori che hanno tra i 20 e i 30 anni. Se la sentenza fosse definitiva, potremmo direttamente chiudere, o al massimo spostarci all’estero – spiega Matteo Moretti, 39 anni, fondatore della società di delivery milanese Just Mary”, che la canapa la porta direttamente a casa dei consumatori – per lanciare la nostra attività abbiamo fatto ricorso a 2 crowdfunding, e con oltre 200 soci siamo riusciti a raccogliere trecentomila euro e ad aprire altre due sedi a Torino e a Firenze. Il marchio è legalmente registrato, questo vuol dire che lo Stato ha percepito l’iva su un’attività che fino a tre giorni fa era legale, e adesso non lo è più».

Gli effetti sugli agricoltori – In Italia, nel 2014 i campi coltivati a canapa occupavano 400 ettari. Oggi, sono saliti a 4000. Nel giro di cinque anni, come riportano le stime della Coldiretti, la superficie di terreno coltivato a cannabis è decuplicato. La sentenza della Corte di Cassazione, tuttavia, tutelerebbe gli agricoltori, che non sono coinvolti direttamente nel commercio dei prodotti realizzati con la canapa. Una considerazione, però, è necessaria: se i coltivatori di cannabis light sono tutelati, resta la grande incognita di come rivendere tutta la merce prodotta, con la filiera della distribuzione bruscamente interrotta da un giorno all’altro.
La soluzione che arriva dall’alto è che la cannabis che non può più essere redistribuita nei negozi vada smistata nei settori farmaceutico e cosmetico, oppure convertita in biomassa. Tuttavia, stando a quanto dicono gli stessi agricoltori, la situazione sarebbe più complessa: «L’industria farmaceutica non usa la cannabis light che produciamo noi, ma canapa più forte con un quantitativo di Thc molto superiore – spiega Moreno Morello, vivaista di Lecce che rifornisce diversi negozi di canapa legale di Milano – La Puglia ha un clima ideale per la coltivazione della cannabis, ma con questa nuova legislazione non sarà più possibile sfruttarlo. E dire che vengono anche dall’estero per coltivare qui, dalla Spagna all’Egitto. Senza considerare il danno economico che subiamo noi agricoltori: la cannabis light destinata ai negozi è prodotta in modo diverso rispetto a quella usata per fare i tessuti e la pasta. La produzione avviene nelle serre, dove può essere più controllata. E tra la struttura della serra, le luci e l’impianto di irrigazione, per coltivare mille piantine, l’investimento può arrivare a 45mila euro».