«Abbiamo voluto venire qui tra mille difficoltà e scommesse. Ma da questo bene non ce ne andremo e il progetto non si fermerà. Stiamo resistendo». Parole di fuoco animate da uno spirito intenso come il canto delle cicale che si propaga nel cielo estivo del Polesine. Facendo attenzione ai dettagli, è tutto un programma già il nome della località che si schiude oltre le pareti verdi del mais: Salvaterra. Perché questa terra in provincia di Rovigo qualcuno ha cercato di salvarla, e continua a farlo ogni giorno nonostante l’indifferenza sociale e gli ostacoli burocratici. Sono le “sette sorelle”, le associazioni che dal 2016 animano e restituiscono alla comunità il punto nevralgico della frazione di Badia Polesine. Villa Valente Crocco: la dimora settecentesca dei nobili di campagna. La “villa del mafioso”. Quella che oggi è ormai la nuova Casa della legalità e della cultura.

 

Un bene restituito alla comunità

Donatella Traniello è una di quelle donne che nasconde un animo irrequieto dietro lo sguardo sereno di chi ha visto molte primavere. Ex presidente dell’Associazione Centro Documentazione Polesano, ha lottato per trasferire la sede dell’Onlus a Villa Valente Crocco. «Il bene ha una forte propensione verso l’esterno già da un punto di vista architettonico»: il perimetro avvolto dai campi si proietta verso le distese bionde di inizio luglio e l’aia accoglie l’ospite dandogli il benvenuto con l’ombra di tre alberi maestosi.

La facciata di Villa Valente Crocco vista dalla via principale di Salvaterra

«Una grande villa nobiliare su tre piani era per forza un punto di riferimento per tutta la comunità contadina, anche solo a livello visivo. Siamo un’associazione attenta alla solidarietà e ai diritti umani, perciò abbiamo avvertito la necessità di metterla di nuovo al centro della vita locale, come luogo di incontro, confronto e apertura verso chi ha bisogno».
Grazie al supporto organizzativo di Libera – l’associazione fondata da don Luigi Ciotti, che dal 1995 lotta contro le mafie e a favore della legalità – sette associazioni culturali e ambientaliste hanno unito i propri sforzi per far rivivere la villa. Dal Wwf, per la tutela della biodiversità, all’Associazione Di Tutti i Colori per il consumo critico, fino all’Associazione Regionale Apicoltori per la cura di arnie a fini di reinserimento sociale e professionale: «È la visione di una realtà possibile, che cresce lenta ma inesorabile».

Il terreno agricolo che si estende sul retro della villa

Più precisamente dal 2016, quando è stata inaugurata la nuova Casa, erede di due anni di ristrutturazione del cortile e del pian terreno. «L’amministrazione comunale non ha ancora capito le reali potenzialità di questo luogo e ci ha fornito poco supporto economico e logistico», racconta Traniello con un velo di amarezza. «Certo, siamo orgogliosi di aver portato a termine il progetto fino a questo punto: anche lo spazio verde dietro la villa è tutto in ordine e aspetta solo che le piante da frutto crescano e gli orti sociali vengano coltivati. Ma c’è ancora tanto lavoro da fare e i fondi sono pochi».

 

Sconfiggere la mafia non basta

È una storia tutt’altro che lineare quella della restituzione alla collettività di questo bene confiscato alla mafia. Tutto inizia il 29 dicembre 1995, quando il Tribunale di Verona conferma il sequestro dei beni per Francesco Ferrari, per tutti “Bistecca”. Veronese, insieme ad altri suoi concittadini era un anello di congiunzione nel traffico internazionale di stupefacenti che dalla Turchia arrivava fino a Palermo, a Cosa Nostra. Per la storia dell’antimafia sono i “mercanti di Verona”: non pedine, ma assoluti protagonisti di una criminalità organizzata autoctona del Nord Est, da sempre territorio considerato immune dalla mentalità mafiosa. Tra i beni confiscati a Ferrari (sentenza di Cassazione, 27 marzo 2003) c’è anche Villa Valente Crocco, acquistata quindici anni prima. Anni bui: affreschi, rifiniture in marmo e fregi «probabilmente saccheggiati o rimossi dai nuovi proprietari» per ammodernare la “villa del mafioso”, come ricorda Traniello.
Ma il vero calvario inizia con la confisca. Il Comune di Badia Polesine si fa subito carico della spesa per la messa in sicurezza dell’edificio. Ottime intenzioni, pessima scelta dei tempi. Calcolati i costi, la cifra arriva a toccare il milione di euro. Troppi per il bilancio comunale: Badia Polesine rinuncia al bene e lo restituisce allo Stato. Dieci anni ricoprono d’edera la villa. Il suo stato di progressivo degrado è presagio dei cartelli gialli che fanno capolino dalle finestre sbarrate del centro di Salvaterra: vendesi. La frazione si spopola, non ha punti di riferimento, viene abbandonata.

La targa dedicata alla memoria di Silvano Franzolin, carabiniere, vittima innocente di mafia

È il 2012 quando qualcosa inizia a cambiare. A togliere la ruggine dai cancelli di Villa Valente Crocco ci pensano il Coordinamento Provinciale Libera – Rovigo e l’Associazione Centro Documentazione Polesano. Il progetto di recupero dell’area esterna e di agibilità delle stanze al piano terra è stato premiato con un finanziamento pubblico di 200mila euro e nel 2014 sono cominciati i lavori su quella che sarebbe diventata la Casa della cultura e della legalità.
Il recupero resta ancora lungo. Dalla barchessa al secondo piano sono ancora tanti i metri quadrati che aspettano di salvare ed essere salvati. Ma un dettaglio all’ingresso svela che le mura sono state intonacate col colore della perseveranza e del sacrificio: è la targa dedicata a Silvano Franzolin, cuore contadino in una divisa da carabiniere. Aveva 41 anni, ancora un mese e avrebbe visto anche lui la nazionale di Bearzot alzare la coppa del mondo a Madrid. Invece fu ucciso a Palermo il 16 giugno 1982 mentre era in servizio. Era quella che sarebbe passata alla storia come “la strage della circonvallazione”. Vittima innocente di mafia, rodigino il cui alto senso del dovere si riflette nelle azioni di chiunque varchi l’ingresso della nuova Casa.

 

Sfida di inclusione sociale e ambientale

Alcune delle arnie del progetto di apicoltura sociale

«Lo sai qual è la nostra difficoltà più grande? Sfidare una certa mentalità locale». Quella che, come in tanti altri territori della Pianura, rende la gente diffidente rispetto al cambiamento, la rinchiude dentro le proprie quattro mura. «Il Polesine è fatto di piccoli paesi immersi nella campagna e isolati gli uni dagli altri. Già il paesaggio facilita un atteggiamento di ripiegamento in sé stessi. È da qui che siamo partiti». Passando sotto l’arco della grande porta a vetri si capisce subito che in questo posto l’inclusione sociale non può che avvenire attraverso uno stretto legame con l’ambiente naturale. Il terreno agricolo di 3.200 metri quadrati è già diviso nelle sezioni che ospitano diversi progetti accomunati da un unico obiettivo: essere “incubatori di solidarietà”, nuovi punti di partenza per chi trova difficoltà a inserirsi nel tessuto sociale. Arnie e orti sociali ne sono l’esempio più lampante.
L’apiario sociale è già attivo, dalla didattica per i bambini ai corsi di formazione professionale per avvicinarsi al mondo produttivo dell’apicoltura. «È molto importante anche il lavoro sul prodotto finale. Nella barchessa costruiremo un laboratorio di smielatura: servirà sia ai piccoli produttori, ma soprattutto per produrre il “miele della legalità”, un progetto di coinvolgimento di persone con disabilità e disagio psichico, per aiutarle nella riabilitazione e nell’emancipazione». Anche grazie al loro lavoro il miele di Salvaterra aiuterà a finanziare il mantenimento delle arnie e delle api.

Il terreno su cui cresceranno gli orti sociali popolari

Gli orti sociali popolari aspettano invece solo il bando autunnale per diventare operativi. Piccoli appezzamenti di terreno dove pensionati, disoccupati, cittadini in difficoltà economica e persone con disabilità potranno coltivare frutta e verdura per sé, socializzando con gli altri “contadini” e proseguendo la tradizione agricola del territorio: «L’agricoltura è sempre stata un’attività essenziale, ricca di valori e di tradizioni. Recuperare il contatto con la terra è il modo più autentico per valorizzare lo spirito di cittadinanza e dare una possibilità di realizzazione personale a chi ne ha bisogno».

 

Un futuro che cresce con gli alberi

I progetti sulla villa sono ambiziosi e già ben avviati. «Ospitalità, manualità e socialità. Queste sono le coordinate per il futuro di Villa Valente Crocco». Ma le sfide da affrontare sono ancora molte e la più grande è il completamento della ristrutturazione: «Al primo piano allestiremo laboratori professionali, al secondo invece accoglieremo gli ospiti con posti letto», specifica Traniello facendosi strada tra l’erba tagliata. Si attendono solo i fondi dal Comune: senza non si possono pagare i professionisti addetti ai lavori.

I tre Ginkgo cresciuti nell’aia. Dietro, la barchessa da ristrutturare

Intanto però, accanto agli orti sociali, il futuro della Casa sta già prendendo la forma dei piccoli alberi da frutto piantati da 200 bambini delle scuole elementari in occasione del 21 marzo, la giornata in ricordo delle vittime innocenti di mafia. Meli, peri, albicocchi che diventeranno gli eredi dei tre centenari alberi di Ginkgo cresciuti nell’aia e testimoni del passato della villa. Oggi i loro tronchi sono avvolti con le bandiere di Libera, dell’Europa e della pace, a memoria dei valori che animano questo luogo, e sotto le loro fronde si tengono iniziative come il “Festival dei Popoli”, fonte di ispirazione sui diritti umani per centinaia di persone. Un passaggio ideale del testimone, dalle “piante relitte” – così chiamate per la loro sopravvivenza all’estinzione – agli alberi che ogni anno produrranno i frutti della terra su cui sono cresciuti.

Accompagnato all’uscita da una bandiera della pace che sventola sopra il portone, è un dettaglio a imprimere nella mente il senso del recupero di questo bene. Una targa sul muretto, con una semplice frase: “10.05.2016: riconsegnato alla società civile, a Noi tutti, perché lo usiamo per fini sociali”.
Il cicalìo riprende incessante e Salvaterra sembra già più libera.