Diritto individuale a essere dimenticati, necessità collettiva di ricordare. Quando si parla di diritto all’oblio nell’era di Internet, si va a toccare uno snodo centrale nelle società democratiche, il confine tra informazione e privacy, poichè, come ha detto Ferruccio de Bortoli, «nelle mani dei giornalisti c’è un pezzo della democrazia futura». Di diritto all’oblio (e di molto altro) si è parlato nell’aula magna dell’Università Statale di Milano mercoledì 23 novembre nel convegno organizzato in concomitanza con il decimo anniversario dalla fondazione della scuola di giornalismo “Walter Tobagi”. Alla discussione, oltre all’ex direttore del Corriere della Sera,  hanno partecipato i giornalisti Beppe Severgnini e Mario Consani, i giuristi Giulio Vigevani e Marco Cuniberti e l’avvocato Marta Staccioli di Google Italia. A fare da moderatore il vicedirettore del Corriere e direttore del master di giornalismo Venanzio Postiglione. L’apertura dei lavori è stata data dal Rettore Gianluca Vago.

DIRITTO ALL’OBLIO: DI CHE SI TRATTA? Il diritto all’oblio è stato il punto di partenza per una conversazione che ha toccato molti argomenti: dal bisogno di essere dimenticati all’uso dei motori di ricerca e dei social network, fino alla post verità, ossia alle notizie false, spesso diffuse ad arte, che diventano vere in quanto virali. In Italia, secondo gli ultimi dati forniti da Google, sono più di 1 milione e 800mila le richieste di deindicizzazione dai motori di ricerca. Di queste, più della metà vengono rifiutate: solo il 43% viene accolto. Ciò avviene perché sono tantissime le persone poco o mal informate. Ma cos’è precisamente il diritto all’oblio? Si tratta di una particolare forma di garanzia che prevede la cancellazione o la non rintracciabilità di notizie che vanno a minare in maniera impropria l’onorabilità di un soggetto. In base a questo principio per esempio non è legittima la diffusione di informazioni che riguardino condanne non ancora definite, a meno che non si tratti di casi in cui interviene il diritto di cronaca. Con l’avvento di Internet, la questione si è fatta ancora più complicata: una notizia resta rintracciabile per anni, in teoria per sempre, anche se è stata superata da eventi successivi. Un problema di deontologia che è analizzato nel Testo Unico dei doveri del giornalista e nei suoi allegati.

Venanzio Postiglione e Ferruccio de Bortoli nella telecamera dei ragazzi della scuola

Venanzio Postiglione e Ferruccio de Bortoli nella telecamera dei ragazzi della scuola

DOVE E COME NASCE? Il dibattito sul diritto all’oblio ha le sue radici nella storia del Signor Costeja Gonzalez, un cittadino spagnolo. L’uomo ha chiesto a Google Spain di essere “deindicizzato”, in modo da non essere rintracciabile attraverso la versione spagnola del motore di ricerca. Dietro questa richiesta la volontà di essere dimenticato, o meglio, di far dimenticare il pignoramento della sua casa. Finito su un quotidiano per questa vicenda, in rete sono ancora disponibili i link che lo riguardano. Di fatto, ha ottenuto il risultato opposto rispetto alle sue intenzioni di partenza, passando alla storia. Da lì in avanti sono aumentati in maniera esponenziale i casi di richieste simili.

QUALE POSIZIONE DEVE ASSUMERE IL GIORNALISTA. Da qui si aprono mille scenari e per il giornalista diventa sempre più difficile rapportarsi con la società. Molto dipende anche dal contesto in cui si concretizza la volontà di anonimato: «La saldezza della democrazia dipende dalla qualità delle informazioni – spiega De Bortoli – ma anche dall’educazione civica degli utenti». Ecco perché: «In un regime autoritario, l’anonimato è una forma di difesa. In democrazia spesso è una viltà». Per Severgnini il problema dell’oblio esiste, ma un uso indiscriminato di questo diritto può condurre a ciò che il giornalista chiama «Democrazia smemorata». «Chi vuole avvalersi di questo diritto – ha spiegato – lo fa perché vuole che vengano dimenticati i propri errori – Se nei motori di ricerca appare il nome di qualcuno è perché un giornalista ha lavorato bene e ha avuto coraggio nel raccontare qualcosa di utile».
Da qui alla post verità il salto è breve: «Dire il falso e ingannare il pubblico ha straordinario successo in questo periodo l’elezione di Trump è un esempio – dice De Bortoli – in questo momento la fabbrica dei falsi ci porta a credere a tutto quello che vediamo». Ed ecco che il giornalista viene privato del suo ruolo di mediatore: «Così facendo si cade nella trappola di una verità costruita da altri. Quello che manca è una capacità di autocritica maggiore: noi giornalisti non possiamo pensare di essere depositari della verità».
Per Severgnini, invece, quella della post verità va chiamata con il suo vero nome: «È una palla: un modo di impanare la faccenda>. Poi gha riconsiuto a Google una maggiore sensibilità rispetto ad altri big della Rete». In particolare Facebook: «Devo ammettere che Google sta facendo qualcosa a riguardo ma dobbiamo evitare che i social permettano a una palla piccola di diventare una palla spaziale. Bisogna intervenire perché Facebook non può lavarsene le mani e farci anche i soldi. In questo modo la democrazia si sfascia». Il riferimento è legato alla vicenda per cui il colosso di Zuckerberg stia lavorando alla censura di alcune notizie per entrare nei mercati finanziari asiatici.

DAL PUNTO DI VISTA LEGALE. Dove finisce il diritto a conoscere e dove comincia il diritto a scomparire? Quali sono le linee guida dentro cui ci si può muovere? In realtà una risposta vera non c’è. La Cassazione con la sentenza numero 23469 del 18 novembre ha stabilito che non si può preventivamente impedire che resti online un articolo per il solo dubbio che sia diffamante. «La giurisprudenza si è mossa molto lentamente su questo aspetto. La stampa rimane stampa: sia nella versione cartacea, sia nella versione online. Discorso diverso va fatto per i social, blog e forum che non sono stampa ma lo sembrano». Per Cuniberti: «Bisogna creare una linea di demarcazione». Vigevani invece si è soffermato su come tutelare la nostra identità digitale: «In maniera banale potrei consigliare di rivolgersi ad un avvocato – afferma – tuttavia lo strumento migliore è chiedere la deindicizazzione ai motori di ricerca per una serie di violazioni sul controllo dei dati».