«Aiutare Fabiano era un mio dovere. La Corte Costituzionale deciderà se è anche un mio diritto e, soprattutto, un suo diritto». E’ emozionato, Marco Cappato, quando fa le sue prime dichiarazioni di fronte ai cronisti: la Corte d’Assise di Milano ha appena annunciato la decisione di portare alla Corte Costituzionale il caso giudiziario che lo vede imputato per il reato di aiuto al suidicio. La sua battaglia per il riconoscimento del diritto a una morte libera e dignitosa – #liberifinoallafine è lo slogan – ha fatto un passo avanti, con l’ordinanza annunciata mercoledì 14 febbraio 2018. Come già richiesto dalle pm Tiziana Siciliano e Sara Arduini, è stato sollevato l’incidente di costituzionalità: sarà il giudice costituzionale a stabilire se ci siano le basi costituzionali per escludere – o, al contrario, affermare – la punibilità di Cappato. Se il leader dei radicali non verrà condannato, si sarà aperta la strada a un nuovo diritto: il diritto di scegliere «come e quando morire».
Il rinvio alla Consulta. L’attesissima sentenza arriva dopo quasi cinque ore di riunione in camera di consiglio della Corte. Sono le due e mezza quando il presidente della Corte, Ilio Mannucci Pacini, comincia a pronunciare l’ordinanza: quando l’udienza è tolta sono quasi le quattro. La questione di fondo, già emersa dalla requisitoria delle pm, è: dalla interpretazione delle norme costituzionali si devono dedurre le basi legali per una condanna o per la assoluzione di Marco Cappato? O, come già chiesto in maniera più provocatoria dalla pm Siciliano in fase di dibattimento: lo stato italiano vuole condannare Cappato per aver aiutato un uomo malato e senza speranza di guarigione a compiere la sua libera volontà? E mentre la Corte d’Assise ha completamente escluso che l’imputato abbia rafforzato la volontà suicidiaria di Dj Fabo, spetterà al giudice costituzionale districare il dilemma interpretativo che porterà alla sentenza in primo grado. Né condannato, né assolto, per ora. Solo quando la Consulta avrà deciso, la palla tornerà alla corte milanese.
ll richiamo alla Cedu e alla giurisprudenza. Scritto e pensato nel 1930, l’articolo 580 del codice penale, che prevede il reato di «aiuto e istigazione al suicidio», è stato più volte considerato inadeguato a giudicare la condotta di Cappato. Sia gli avvocati dell’imputato sia le pm hanno ricordato che tale reato è stato immaginato in un mondo in cui un uomo nelle condizioni di Fabiano Antoniani sarebbe morto in poche ore. Un mondo, cioè, in cui le capacità tecniche di mantenimento artificiale della vita erano distanti anni luce da quelle di oggi. Citando le sentenza di altri processi italiani (tra cui i casi Welby ed Englaro), la più recente giurisprudenza Cedu, ma anche le nuove norme introdotte con la legge sul biotestamento, la Corte di Milano ha avanzato l’ipotesi che, dall’insieme delle fonti esistenti, si può dedurre un diritto alla morte dignitosa. Non un diritto alla morte tout court, ma un diritto alla auto-determinazione che, nei casi come quelli di Dj Fabo, si può tradurre nella scelta – legale oltre che legittima – di porre fine alla propria vita.
Un processo storico. Assediato dai giornalisti, Cappato sale su un gradino, si mette proprio sotto la grande scritta in stile fascista: Corte Penale. Nel corridoio del Tribunale di Milano le sue parole rimbombano insieme ai click dei fotografi. «Io voglio dire grazie alla scelta di Fabiano di fare quello che ha fatto e che clandestinamente decine di persone fanno ogni anno e di averlo fatto pubblicamente. Voglio ringraziare Valeria e Carmen per aver avuto fiducia in Fabiano e in me e nell’aiuto che gli ho fornito. Un aiuto che continuo a rivendicare», dice. Poi ringrazia gli avvocati e va via, inseguito dalle telecamere.