Non si allentano le tensioni tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. L’uscita del ministro degli Esteri dal Comitato di garanzia, organo interno al Movimento dei 5 Stelle che decide le candidature politiche e i requisiti per essere iscritti, segna una prima vittoria di Giuseppe Conte. L’ex presidente del Consiglio continua però a dirsi «sorpreso» dall’atteggiamento del compagno-rivale in riferimento all’opposizione alla candidatura di Elisabetta Belloni al Quirinale. «Non consentirò ulteriori logoramenti», ha detto oggi, sette febbraio, in un’intervista rilasciata alla Stampa.

«Basta divisioni» – Conte prova a tirare dritto, a tenere in piedi la baracca, sterilòizzando le correnti interne pur esaltando il pluralismo di idee. Consapevole però della necessità di un riavvicinamento con il suo predecessore che controlla una parte rilevante dei parlamentari. Al punto che alcuni hanno fisicamente bloccato i loro compagni, al quinto scrutinio delle elezioni del presidente della Repubblica, per evitare che trasgredissero le indicazioni al non voto del campo progressista. Se la frattura si dovesse protrarre per un lungo periodo, le conseguenze sarebbero incerte. Ad aprile si vota in città importanti, Palermo, Monza, Genova, Taranto, Parma. In ballo c’è ancora lo statuto: il Movimento vorrebbe accedere al finanziamento del 2 per mille le cui regole però prevedono una gestione meno verticistica, con una conseguente perdita di potere di Conte. Di Maio, raccontano le indiscrezioni, sarebbe attirato dalle sirene centriste, di sicuro intrattiene ottimi rapporti con esponenti moderati di Lega e Forza Italia. Tra un anno circa ci sono le elezioni politiche e il Movimento ci arriva con i sondaggi che lo danno tra il 12 e il 15 percento. Se i consensi non salgono, sarà una debacle. Come dice a Repubblica un dirigente, «si passano le giornate a parlarci addosso, la politica è scomparsa». E con lei il Garante, Beppe Grillo, sempre più assente, sconnesso e impelagato in inchieste giudiziarie. Alla base una struttura pericolante, con i referenti sul territorio ancora da nominare, un capo non riconosciuto da molti, troppi esponenti del partito. Da anni ormai si parla di «crisi», «implosione», «frizioni» nel Movimento. La rottura tra Di Maio e Conte è solo l’ultima della serie, se le cose non si rimettono a posto forse l’ultima del Movimento 5 Stelle per come i suoi fondatori l’avevano immaginato.

I motivi – Il casus belli, la proposta di Elisabetta Belloni, «una sorella fedele» di Di Maio, come lo stesso ha voluto sottolineare, alla presidenza della Repubblica, non è ancora stato chiarito. Il nome sarebbe stato fatto di comune accordo con Enrico Letta e con l’avallo di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Poi, dopo l’opposizione dei democratici Dario Franceschini e Lorenzo Guerini, e dello stesso Di Maio, l’accordo è saltato. «Pensavano di fregarmi», è il sunto della critica del ministro degli Esteri, cui la sortita non è andata giù. Ancora irritato per essere stato escluso, almeno stando alle sue dichiarazioni, dalla trattativa, dopo la riconferma di Sergio Mattarella ha denunciato alle telecamere «il fallimento di certe leadership che hanno creato divisioni». Non c’era bisogno di fare nomi.
Giuseppe Conte ha risposto che, al contrario, il nome di Elisabetta Belloni, che ha sostituito al Dis, nei primi giorni del governo Draghi, il “suo” Gennaro Vecchione, era invece frutto di un lungo lavoro. Del quale Di Maio, sostiene ancora l’ex avvoicato del popolo, era a conoscenza. Il capo politico del Movimento ha detto che, al momento della conta in aula «è intervenuto il Partito trasversale che non vuole cambiare il Paese». Anche in questo caso, nome e cognome non erano necessari.