Tornano le bombe sulle macerie e gli sfollati di Gaza, nonostante due mesi fa la speranza di una tregua duratura avesse contagiato tutte le parti in causa. Ieri, mercoledì 19 marzo, l’esercito delle Idf ha riportato i carri armati nella Striscia di Gaza a poco meno di sessanta giorni dalle firme del cessate il fuoco. L’invasione fa seguito al bombardamento con cui il giorno prima l’aviazione israeliana aveva colpito i centri di Gaza, Rafah e Khan Yunis dove almeno 450 persone hanno perso la vita secondo il ministero della Salute della Striscia. L’attacco è considerato come uno dei più mortali dall’inizio delle ostilità del 7 ottobre 2023, e segna la fine della tregua dieci giorni dopo il teorico inizio della seconda fase. Lo scopo dell’attacco è riprendere il corridoio Netzarin per impedire il libero passaggio da nord a sud di gazawi e membri di Hamas.

Pressioni di gabinetto – Lo scorso 3 marzo sarebbe dovuta cominciare la seconda parte di quel piano articolato in tre momenti che Donald Trump – o meglio l’amministrazione Biden – aveva sottoposto a Benjamin Netanyahu tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025. In questa seconda fase, Hamas avrebbe dovuto completare il rilascio degli ostaggi e Israele abbandonare definitivamente la Striscia, per dare così il via alle operazioni di ricostruzione di un potere politico autonomo. Una soluzione che Netanyahu non ha mai inteso percorrere e che, con la legge di bilancio in gioco, l’esecutivo ha scelto di rigettare con la ripresa degli attacchi. Proprio ieri infatti, il premier israeliano ha riaccolto nella coalizione di governo Itamar Ben Gvir come ministro della Sicurezza nazionale. Il leader del partito di destra radicale Potere Ebraico aveva abbandonato il collega a gennaio, a causa dell’inizio della tregua. La ripresa delle ostilità è quindi direttamente collegata alla stabilità del governo e all’intenzione, condivisa anche dal ministro della Difesa Israel Katz, di proseguire con l’obiettivo di distruggere Hamas e occupare stabilmente la Striscia.

Gaza - ripresa ostilità

Palestinesi sfollati dopo il nuovo ordine di allontanamento emanato da Israele

Ostaggi e Nazioni Unite – Bombe e carri armati che hanno messo fine alla tregua e che hanno colpito – forse involontariamente – anche la base Onu di stanza a Deir Al-Balah, quartier generale dell’organizzazione nella Striscia centrale. L’episodio è controverso al punto che il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha chiesto un’indagine completa che chiarisca gli avvenimenti. Fonti del governo di Gaza hanno comunicato che nell’attacco ha perso la vita un operatore bulgaro del servizio di mitigazione delle mine Unmas e sono rimasti feriti altri cinque funzionari, anche se i vertici di Tsahal – le forze militari israeliane – hanno smentito di aver compiuto alcun attacco sulla base. L’ipotesi è che si sia trattato di un incidente durante il processo di bonifica delle mine rimaste sul terreno.

Proteste e ostaggi – La ripresa delle ostilità ha riacceso le proteste nei confronti del governo di Tel Aviv. Oggi, giovedì 20 marzo, decine di migliaia di persone hanno manifestato nel quartiere Rehavia a Gerusalemme e nella capitale contro il ritorno alla guerra. «È tempo di mettere fine a questa follia, prima di non avere più nessuno da salvare, prima di non avere più un paese», ha affermato la leader delle proteste Shikma Bressler, rivolgendosi alla folla per sottolineare come questa decisione metta in serio pericolo la vita dei 24 ostaggi ancora vivi. Dopo 531 giorni, Hamas ha scambiato 25 ostaggi e consegnato 8 cadaveri a Israele. A questi dovrebbero aggiungersene 59, di cui solo 24 sarebbero ancora in vita. Dopo aver firmato gli accordi per il cessate il fuoco lo scorso 19 gennaio ed essersi ritirati parzialmente dal corridoio Netzarim a inizio febbraio, Israele si è progressivamente smarcata dal piano previsto, rallentando – e poi bloccando – l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia e scegliendo di riprendere i bombardamenti nonostante gli accordi.