È passato un anno dalla morte di George Floyd. Lo scorso 25 maggio, Il gigante afroamericano veniva ucciso soffocato dal ginocchio di Derek Chauvin, agente in forze alla polizia di Minneapolis. E Il suo ultimo respiro, quel suo “I can’t breath”, rimbalzando dalle tv ai siti e ai social, riecheggiava nelle coscienze togliendo il fiato al mondo intero. Nei mesi successivi, l’impatto di quell’omicidio sulla società americana, già lacerata dalle elezioni più drammatiche della sua storia, è stato tale che i media statunitensi hanno sentito il bisogno di raccontare i fatti, sì, ma moderando i toni. Emblematico il caso di National Geographic. La rivista ha scelto di posticipare la pubblicazione della storia “The Ameriguns” (racconto sulla diffusione delle armi nel Paese) di qualche mese, tanto era avvertito come reale il rischio di innescare una polveriera. La storia è poi valsa il World Press Photo al fotografo Italiano Gabriele Galimberti nella categoria ritratti, tanto la giuria della competizione ha ritenuto di attualità il tema.
Secondo il professor Marco Mario Sioli, che insegna Storia e Istituzioni delle Americhe all’Università Statale di Milano, spiegare cosa sia cambiato a distanza di un anno da quel 25 maggio 2020 non è semplice. Dire tutto e niente non è una banalizzazione. Tutto è il senso di impunità delle forze dell’ordine. Niente, invece, il peso delle trasformazioni percepite dalla maggioranza degli afroamericani. Certo è che in questo anno le violenze non si sono interrotte, anzi sono aumentate in tutto il Paese. A Minneapolis nel 2021 sono stati commessi 31 omicidi, il doppio rispetto al 2020. Le sparatorie dell’ultimo fine settimana hanno spinto il quotidiano della città Star Tribune a invocare il cessate il fuoco nelle strade della capitale del Minnesota. È questo il nodo della conversazione che segue: violenza e diffusione capillare delle armi restano il problema irrisolvibile della società americana.
Perché tra le tante vittime afroamericane della violenza della polizia, proprio il caso George Floyd ha suscitato lo sdegno di una nazione e del mondo?
Sono stati quegli otto minuti terribili. Il ginocchio del poliziotto che preme contro il collo di George Floyd fino a soffocarlo è la rappresentazione moderna dei linciaggi a cui in passato ci aveva abituato il Sud degli Stati Uniti. La morte per soffocamento è tipica dell’impiccagione, infatti. A differenza delle altre violenze trasmesse in Tv e diffuse dai social, questa è stata troppo evidente: si è riproposto il linciaggio come metodo di eliminazione di una persona come nei film, ma questa volta in Minnesota, nel profondo Nord del Paese. Impossibile insabbiare questo episodio come ancora accade nel profondo Sud, dove persiste la connivenza di polizia, establishment politico e in buona parte anche dei media locali.
L’elezione di Joe biden ha cambiato qualcosa?
Cento volte sì. Il presidente americano ha preso una posizione netta già in campagna elettorale. Si è schierato dalla parte della famiglia senza esitazioni, l’ha visitata. E il messaggio è stato chiarissimo: simili vicende non sono più tollerabili. Anche grazie a ciò ha stravinto il voto afroamericano, Biden è il loro presidente.
La presa di posizione di Biden può aver determinato la decisione di condannare Derek Chauvin, il poliziotto che ha ucciso George Floyd?
Non penso. Nel decidere la magistratura americana è più indipendente di quanto si creda. Certo può essere stata influenzata dal cambio alla Casa Bianca, ma quelle immagini erano prove troppo evidenti: non lasciavano adito all’ipotesi di assoluzione. “I can’t breath” è diventato un grido, il grido di ogni cittadino soffocato dalla violenza del razzismo.
Qual è la portata della condanna di Derek Chauvin?
Si tratta di un evento storico per l’America perché spezza una logica ben consolidata nelle dinamiche sociali del Paese, cioè la pratica del buon vicinato. Un vicinato chiede di essere sicuro, protetto, per questo le giurie tendono a fidarsi dei propri poliziotti. Il caso di Chauvin mostra tutto il potere di quelle immagini: hanno letteralmente trasformato il modo di pensare della comunità. In questo caso le persone non si sono più fidate né del singolo poliziotto, né del sistema che lo ha addestrato, il suo agire denuncia la consapevolezza dell’impunità per le proprie azioni.
Quindi a un anno di distanza qualcosa è cambiato?
Sì. Basti fare un raffronto con gli anni ’90. A ciò che è avvenuto durante i disordini di Los Angeles. Anche in quel caso il pestaggio selvaggio di Rodney King da parte delle forze dell’ordine fece il giro del mondo. Sconvolse, ma nel ’92 tutti gli i poliziotti accusati vennero assolti. Chiaramente da una giuria bianca, della Simi valley, roccaforte del reaganismo. All’epoca la parola d’ordine era mettere tutto sotto il tappeto, il razzismo andava nascosto sempre e comunque. Erano aree in cui il concetto di “whiteness”, quindi di difesa della razza bianca, prevaleva sull’appartenenza politica.
Per questo il 25 maggio è una data che rimarrà impressa, la società americana ne è uscita trasformata. Non dico che cesseranno le violenze, ma di fatto i tempi dell’impunità totale sono passati.
Si parla anche di “defunding” delle forze dell’ordine.
È diventato un tema politico quello di sottofinanziare la polizia in favore di investimenti sul sociale. Ma con i crimini violenti in aumento, anche a causa della crisi economica innescata nell’ultimo anno dalla pandemia, non si tratta di un percorso praticabile al momento.
Quello della violenza resta un tema sempre caldo negli Stati Uniti.
Assolutamente sì, e il problema di fondo è quello della diffusione capillare delle armi. Anche un poliziotto armato può trovarsi incapace di gestire alcune situazioni. Chiunque può essere in possesso di armi automatiche o d’assalto. Anche per questo sopravvive la tendenza bipartisan a difendere a spada tratta i poliziotti in ogni tipo di contesto.
Come è noto il tema delle armi è di difficile risoluzioni. Obama ha provato a regolamentarle in maniera più stringente, eppure la sua proposta di legge si è arenata in congresso. Si tratta senza dubbio della grande disillusione della sua presidenza.
I disordini a Gerusalemme e la guerra a Gaza hanno di nuovo fatto parlare del caso Floyd.
Sono fatti distanti, ma un punto in comune c’è. Difficile non osservare le violenze della polizia a Gerusalemme est senza ricordare che la polizia di Minneapolis è stata addestrata da specialisti israeliani, soprattutto per quanto riguarda le manovre di contenimento. Di recente ho letto un’intervista di Angela Davis, attivista del movimento afroamericano degli anni 60, che metteva in relazione la causa palestinese all’oppressione razzista in America.
Anche la solidarietà espressa da Bernie Sanders per il popolo palestinese può essere spiegata da questa trasformazione della società americana?
Sono temi molto delicati da trattare in America per un politico, soprattutto per la presenza di una lobby israeliana potente. Ma questo rientra nella narrativa di Sanders: il suo “enough is enough” è il “quando è troppo è troppo” che vale sia per l’assassinio di Floyd sia per l’oppressione del popolo palestinese. Da sempre questa espressione parla al popolo americano, lo spinge a reagire, anche ricorrendo alla violenza se necessario. Dalla sua fondazione, con la rivolta agli inglesi, fino alle proteste di Black lives matter. Anche le rivolte degli afroamericani possono essere lette come guerre di liberazione. Di conseguenza colpiscono l’immaginario americano.
Per questo la Georgia corre ai ripari?
È un tentativo maldestro quello del partito repubblicano di cercare di limitare il voto alle fasce più marginalizzate della popolazione. Del resto l’immagine di un governatore che sceglie di firmare questa legge affiancato da sei funzionari bianchi e con alle spalle un quadro che rappresenta una piantagione schiavista è un messaggio chiaro: il tempo della supremazia bianca non è finito. È evidente che il voto afroamericano sia stato decisivo nel determinare la vittoria di Joe Biden in Georgia. Ai miei studenti ricordo sempre il caso della signora che aveva firmato col nome del marito defunto. Tutti sono andati a cercare chi avesse frodato il sistema, votando col nome di un morto, alla fine si è scoperto che si trattava di una 96enne bianca, che aveva firmato col nome del marito come si faceva negli anni 30.
Qual è il futuro di Black lives matter?
Forse andrà incontro a una caduta di interesse nei confronti delle sue iniziative, anche perché alla Casa Bianca c’è Biden, un amico. Per questo dovrà dare voce alle sue due anime: da un lato quella della National Association for the Advancement of Coloured People, attiva sul territorio, protagonista di azioni politiche e battaglie nei tribunali: la prossima potrebbe essere contrastare la legge sul voto in Georgia ad esempio. Dall’altro, dovranno tenere viva la loro ispirazione movimentista, quella capace di accendere la miccia: “The fire next time”, come diceva James Baldwin.