Siamo in pace da 75 anni, ma a sentire i nostri politici non sembrerebbe. I Cinque stelle hanno avuto bisogno di “sminatori” per risolvere la querelle fra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, mentre Giorgia Meloni denuncia la guerra al contante messa in atto dal Governo. E poi c’è ovviamente il grande nemico alla frontiera, il coronavirus, contro il quale, nei discorsi dei leader, combattiamo da più di un anno. Le metafore belliche sono sempre più utilizzate nel linguaggio politico. Ma rischiano di portare ad un peggioramento della qualità del dibattito e a una eccessiva semplificazione della realtà.
La funzione del linguaggio bellico – Come spiega la professoressa Giulia Bassi, docente di Storia dei movimenti politici e sociali all’Università degli Studi di Milano ed esperta del linguaggio dei partiti politici nell’Italia del Novecento, l’uso di lessico legato alla sfera della guerra non è certo una novità. «L’uso di metafore, non solo di tipo bellico, è tanto vecchio quanto la politica stessa, potremmo dire», afferma Bassi, «Il discorso politico è ogni produzione linguistica che mira a persuadere. Le metafore sono figure retoriche che implicano un trasferimento di significato: rafforzano il concetto che si vuole veicolare, potenziando la performatività del messaggio. Quindi è naturale che, in quanto strumenti altamente comunicativi, siano un ingrediente chiave della politica». Il lessico metaforico di tipo bellico, continua Bassi, «è a maggior ragione molto performante: fornisce una spiegazione semplice della realtà, che orienta e mobilita ad azioni chiare. Pensiamo anche agli Europei e alla forza suggestiva dell’Inno di Mameli».
I limiti della metafora guerresca – Ma è in questa loro potenzialità, che si trovano anche i limiti delle metafore guerresche: «Da una parte alzano i toni del confronto in modo aggressivo e dall’altro portano ad un’ipersemplificazione della realtà. L’utilizzo della parola “battaglia” per definire uno scambio, un decreto o una linea politica comporta il costruirsi e il diffondersi di una rete di metafore a essa collegate, anche implicitamente. E parlare in termini di guerra implica porre a tema l’esistenza di un nemico da combattere, di vittime e di eroi, di combattenti e disertori, di “minatori” e “sminatori”». In questo modo, prosegue Bassi, si viene a formare «una profonda linea di demarcazione tra giusto–morale (noi) e sbagliato–immorale (loro) e si riduce la realtà a un’opzione binaria, annullando al contempo tutta una serie di azioni intermedie dalla rosa delle possibili risoluzioni “diplomatiche”». Così, continua la docente, «si costruiscono e diffondono schemi mentali che informano e predeterminano il nostro modo di pensare e che si radicano quanto più sono inconsapevoli».
«Come se non bastasse», aggiunge, le rappresentazioni culturali (tra cui le metafore) si comportano come fenomeni biologici, propagandosi socialmente “per contagio”. E certe narrazioni, anche grazie all’uso congiunto delle immagini e dei video, sono altamente virali, diffondendosi maggiormente e più velocemente di altre».
Guerra al Covid – Secondo Bassi, il Covid ha fornito un’ulteriore occasione per la propagazione di questo tipo di retorica: «Negli ultimi mesi abbiamo assistito a una forte politicizzazione della questione sanitaria e a un uso sempre più massiccio e spregiudicato di un linguaggio di tipo bellico». Anche in questo caso, non si tratta di una novità: «L’influenza del 1918, nota come “spagnola”, ha avuto denominazioni diverse a seconda dei luoghi di diffusione. In Polonia era la malattia “bolscevica”, in Rhodesia “l’influenza dell’uomo bianco”, in Brasile “la tedesca”. Erano nomi riconducibili a designazioni geografiche, ma che nascondevano un significato politico declinato a seconda dell’esigenza nazionale: nomi che rimandavano a un altro–da–sé, all’idea di un’invasione, di una potenziale minaccia esterna». Lo stesso avviene con il Covid. Bassi porta ad esempio l’ex-presidente degli Stati Uniti Donald Trump: «Ha sempre parlato di “virus cinese” o “virus di Wuhan”, riflettendo la progressiva instabilità delle relazioni sino-statunitensi e la crescente competitività commmerciale. E il suo presentarsi come wartime president ha funzionato come cassa di risonanza in termini di aggressività politica». Ma il fenomeno non si limita agli Usa: «Dal febbraio–marzo 2020, tutto il discorso politico internazionale è stato permeato di una retorica bellicista, letteralmente invaso da parole provenienti dal campo simbolico della guerra (pre–esistenti ma via via caricate semanticamente di nuovi significati): quarantena, lockdown, confinamento, blocco, autoisolamento, nemico, arma, trincea, prima linea, battaglia, coprifuoco, eroi, caduti sul campo, sino al bollettino quotidiano dei contagi e dei decessi». La narrazione del Covid come nemico, contro cui combattono medici e infermieri («soprattutto infermieri», chiosa Bassi, «figure pubblicamente più rassicuranti»), con le armi del vaccino è diventato un fenomeno di portata «tale da far parlare di un vero e proprio globalised discourse». «È innegabile», continua la docente, «che questa narrazione, spesso espressa enfaticamente e con venature patriottiche, sia funzionale a un discorso politico: non a caso, il paragone più usato è stato quello con la Seconda guerra mondiale, per cui il Recovery Fund è stato equiparato al Piano Marshall».
La retorica a destra e a sinistra – Secondo Bassi, «è indubbio che le diverse parti politiche utilizzino anche un vocabolario di base comune. Così alcune metafore possono migrare da un contesto all’altro». Addirittura, ricorda Bassi, una stessa immagine può essere utilizzata da forze politiche contrapposte in una medesima campagna elettorale: «Avvenne così nella campagna elettorale del 1953, quando sia il Partito comunista italiano che la Democrazia cristiana usarono, da prospettive differenti, la metafora del gioco d’azzardo». L’utilizzo della metafora della guerra in relazione al Covid è allo stesso modo stata usata da tutti gli schieramenti politici: «Per le loro caratteristiche intrinseche (semplicità, sinteticità, immediatezza, ripetibilità, riproducibilità, ancoraggio), le metafore sono tremendamente virali e resistenti, specie se adoperate a lungo come strumenti essenziali di una campagna di coinvolgimento e di mobilitazione continuata, come quella a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi», afferma la docente.
Tutte le guerre d’Italia – Uno sguardo veloce agli account Twitter dei leader politici italiani mostra però qualche differenza nell’uso del linguaggio bellico in ambiti non strettamente connessi alla pandemia. Ad esempio, il termine “guerra” in senso figurato era poco usato da Luigi Di Maio, Matteo Renzi o Nicola Zingaretti prima della pandemia: compare solo una volta nel profilo twitter di Di Maio nel 2019, come «guerra al caporalato», una volta in quello di Renzi, che parlava di «guerra fra Salvini e Di Maio» durante la crisi del Governo Conte I, e due volte in quello di Zingaretti, che faceva sempre riferimento alla «guerra fra Lega e Cinque stelle», come anche alla «guerra contro la camorra». Il termine era più frequente per Giorgia Meloni, che l’ha usato per dieci volte su Twitter, parlando di «guerra al contante» e di «guerra al Grande Fratello Fiscale contro il contante», di «guerra del Südtiroler Volkspartei all’italianità», di «guerra all’Italia che lavora», di «guerra alla mafia, alla camorra e alla criminalità organizzata». Mentre compariva oltre 20 volte sul profilo dell’assiduo twittatore Matteo Salvini: in riferimento alla «guerra contro le mafie», ad una «guerra totale allo spaccio», alla «guerra sulle tasse» o «alle partite Iva», ma anche alla «guerra interna al Governo» o alla «guerra delle poltrone». Innumerevoli poi i riferimenti alla «guerra» portata in Italia dall’«invasione» di immigrati. Un altro prolifico twittatore, Carlo Calenda, è invece il più avvezzo all’uso del termine in ambito progressista: il leader di Azione ha usato il termine per ben 11 volte nel 2019, spesso applicando la metafora proprio al dibattito politico, parlando di «guerra civile fra partiti decotti», di «guerra preventiva» e di «guerra per bande che dilania il centro-sinistra».