Idee chiare, toni fermi, ricordi vivi e precisi. David Hogg e Jaclyn Corin, sopravvissuti alla strage nel liceo di Parkland, in Florida, il 14 febbraio scorso, al Festival internazionale del giornalismo di Perugia hanno raccontato la loro battaglia nel movimento March for Our Lives. Un’associazione che, il successivo 24 marzo, era riuscita a organizzare l’omonima manifestazione di protesta contro la vendita libera delle armi da fuoco in America. Un evento, tenutosi a Washington e in oltre 800 città americane e straniere, capace di raccogliere oltre due milioni di persone nelle piazze e risultando il più grande corteo studentesco nella storia americana.

Un incubo che non passa – Nella prima parte dell’incontro, i due hanno ricordato il giorno dell’attentato in cui morirono 17 persone, impressionando per la lucidità delle testimonianze: «Ho sempre portato con me una videocamera, perché desidero diventare un documentarista – ha esordito Hogg – e non appena quel giorno abbiamo sentito l’allarme e capito la situazione, ho iniziato a fare riprese ai miei compagni. Volevo mostrare cosa significasse aspettare e credere di morire». L’esigenza di documentare la tragicità di quanto avvenuto ha da subito animato il ragazzo: «Sono tornato a casa e mia sorella era scioccata, aveva perso quattro sue amiche. Sono tornato con la telecamera a scuola per girare nuove riprese. I media ne avrebbero parlato soltanto per due settimane». Più commosse, invece, le parole di Corin, che ha insistito sulla difficoltà nel metabolizzare quanto accaduto: «Ho pensato spesso che sarei potuta essere una delle vittime, lo penso tuttora. Quel giorno era San Valentino, ma non ricorderò più quella data come un giorno d’amore».

La potenza delle lobby – Il focus si è poi spostato sull’obiettivo della loro organizzazione: «Purtroppo il possesso di armi è un elemento della nostra cultura, specialmente delle classi più povere – ha ammesso Corin – ma mi sono detta, dopo quanto successo, che non avrei più permesso alle lobby delle pistole di vincere questa battaglia». Una battaglia resa molto complicata, secondo quanto spiegato da Hogg, dalle campagne di discredito condotte via social contro di loro: «Hanno iniziato a girare voci strane, che non fossi presente a scuola quel giorno, che il nostro fosse un complotto per togliere l’uso delle armi. Ma noi non siamo contro le armi, ma contro la morte delle persone e la violenza». Controffensive virtuali che non hanno spaventato i ragazzi di March for Our Lives, decisi nell’evidenziare l’incapacità dello Stato di essere indipendente nel suo potere legislativo: «Le lobby delle pistole hanno bloccato degli studi in corso sugli effetti possibili delle leggi contro le armi da fuoco, esisteva un emendamento che ne stava pensando l’attuazione».

Il ruolo del giornalismo – E dalla politica il discorso ha poi affrontato le responsabilità del giornalismo nel fare luce su queste questioni: «Non è possibile che quello che viene scritto sui social prenda il sopravvento, è contro il primo emendamento della nostra Costituzione, quello sulla libertà di stampa». La consapevolezza e la forza dei due ragazzi hanno entusiasmato la platea del teatro, che li ha spesso interrotti per omaggiarli con lunghi applausi: «I giornalisti devono mettere a nudo l’incapacità dei politici, dopo queste stragi ci sono solo parole a caso, ma nessuno parla mai di piani precisi, perché non li hanno». Una mancanza di volontà e di azione le cui conseguenze non si ripercuotono solo all’interno dei confini a stelle e strisce, ma anche oltre: «Il nuovo imperialismo è quello delle armi. Quando in un altro Paese una bomba americana si abbatte su un bus, la responsabilità è ugualmente del nostro Stato». Una lucidità di analisi che si traduce in un impegno militante destinato a durare ancora molto. Se per il 2020 i due ragazzi si aspettano un presidente dalle idee diverse, il loro orizzonte si spinge ancora oltre: «Vogliamo dare l’esempio per essere una nuova generazione di leader futuri».