Resistenza: è questa la parola chiave del futuro dell’olivicoltura salentina. Trovare una specie di ulivo autoctono che sia immune o resistente a xylella è diventata la missione dell’imprenditore Giovanni Melcarne. L’agronomo è il proprietario dell’azienda olivicola Forestaforte e presidente del consorzio produttori Dop di Terra d’Otranto: «ho 50 ettari di terreno, 3000 ulivi ma ho perso l’80% della produzione a causa di xylella», dice Melcarne mentre cammina nella sua serra sperimentale a Gagliano del Capo, nel profondo sud della provincia di Lecce. Gli ulivi della serra di Forestaforte sono il risultato di incroci casuali ma fortuita non è la loro presenza nella serra. «Come i figli , queste piantine non sono esattamente la copia del padre e della madre. Hanno suscettibilità e resistenze diverse ai patogeni e quindi anche al batterio xylella», spiega Melcarne. «Teoricamente da un seme di Cellina di Nardo‘, una delle varietà autoctone che insieme a Ogliarola salentina sono state sterminate dal batterio, potrebbe nascere una pianta resistente a xylella».
Resixo – Questi semenzali sono stati scelti per il progetto Resixo, cioè per la ricerca di specie resistenti al batterio che ha infettato circa 10 milioni di ulivi nella sola provincia di Lecce, secondo stime Coldiretti. Iniziato nel 2016 per volontà di Melcarne, il progetto è stato
finanziato con 25mila euro dai lettori e dalle redazioni di due riviste tedesche, Merum e Der Feinschmecker, specializzate in agricoltura, coinvolgendo anche il Centro nazionale di ricerca (Cnr). «Questi sono 30 genotipi. Ogni fila rappresenta un genotipo diverso. Ecco un S7, un S18 e così via», spiega Melcarne indicando le etichette sulle piantine, alte poco più di tre metri, con foglie di diverse gradazioni di verde. Le cultivar Resixo sono una speranza per il futuro paesaggistico e agricolo leccese: «spero che si riesca trovare una pianta resistente autoctona», dice l’olivicoltore, «il Salento ha bisogno di specie figlie di questo territorio perché è l’unico modo per competere nel mercato dell’olio a livello internazionale. Sono piante che nascono sul territorio, sono già produttive e si può testare subito la resistenza in campo. Nel disastro questa sarebbe la migliore via d’uscita: ecco perché nasce l’idea dei semenzali».
Aspettando la prova scientifica – Per continuare, questa sperimentazione dovrà passare dall’evidenza empirica alla prova scientifica. «Dieci cultivar verranno presto ingabbiati in una rete e all’interno sarà inserito un insetto vettore infetto da xylella che inietterà il batterio nella pianta», spiega Melcarne. Ma i tempi sono lunghi: « aspetteremo circa un anno prima di effettuare le analisi per verificare la presenza del batterio e l’eventuale resistenza della pianta». In caso di risultati positivi si proseguirà con il trasferimento delle piante sul campo e poi alla moltiplicazione dal terreno madre. «Speriamo con i semenzali di recuperare parte della produzione nel giro di 3 o 4 anni. Abbiamo fatto le moliture su 14 di questi, per conoscere la qualità dell’olio. Dobbiamo ragionare in termini agronomici e imprenditoriali. Senza reddito non esiste il paesaggio». Si riuscirà a recuperare il patrimonio agricolo e paesaggistico? Melcarne non vuole sbilanciarsi ma offre una prospettiva: «Se tutto andrà per il verso giusto recupereremo, magari tra vent’anni, la metà degli ettari persi, cioè 40mila».
Le altre speranze: innesti e semi – Fuori dalla serra, nel giardino adiacente all’oleificio Forestaforte, c’è un appezzamento che accoglie piantine seminate circa 5 mesi fa. Sono semenzali nati da noccioli della specie Leccino ma ad impollinazione libera. Probabilmente, dice Melcarne, il padre è una varietà di Ogliarola e Cellina. «La varietà ‘Favolosa’ (Frantoio selection n 17), resistente per ora a xylella, è nata così cioè con la semina dei noccioli». Per queste piantine, i tempi sono ancora più lunghi: ci vorranno almeno 20 anni per portare a termine tutti i test genetici e agronomici per verificarne resistenza e produzione. Il semenzale trovato in natura, come quelli della serra, fa recuperare tempo: «circa 15 anni, perché è già produttivo ed è già una speranza», dice Melcarne.
Leccino e Favolosa sono i due tipi di ulivo resistenti a xylella. Questi ulivi sono infetti ma presentano una quantità di batterio inferiore alle piante suscettibili, perché riescono a limitarne la presenza attraverso meccanismi di resistenza genetica. Melcarne, come altri olivicoltori, ha utilizzato i due tipi resistenti per innestare, cioè far riprodurre i rami sani, sugli ulivi malati. I risultati sono visibili, il metodo funziona in alcuni casi e alcuni alberi continuano a produrre. Accanto ai suoi innesti, che l’occhio fatica ad assimilare agli alberi forti e massicci del passato, l’olivicoltore esclama: «la resistenza pero non è garantita nel tempo, con xylella non c’è niente di certo».
Un male incurabile e un mare di danni – Xylella è visibile solo al microscopio ma la sua presenza è lampante, quasi sinistra nelle campagne salentine. Non si può ignorare. Si può pero immaginarla, come nel peggiore degli incubi, alla stregua di un ragno assassino che tesse la sua tela intorno ad alberi sempreverdi, trasformandoli in ragnatele di ghiaccio. L’EFSA, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, ha recentemente confermato che per il momento non esiste una cura.
Se non si possono quantificare i danni paesaggistici e immateriali, i dati Coldiretti aiutano a capire la gravità del fenomeno. Nel Salento, area che comprende le province di Lecce Brindisi e Taranto, la molitura delle olive dei frantoi aziendali, industriali e cooperativi, nella campagna di raccolta 2018-2019, ha registrato un calo del 90 percento rispetto ai livelli pre xylella, con un equivalente crollo del fatturato e del personale impiegato. Per la campagna olivicola 2018, Coldiretti riferisce una contrazione del 16% delle olive raccolte rispetto all’anno precedente, il 2017, che aveva stabilito 14mila 800 tonnellate di olive raccolte nella provincia di Lecce, secondo i dati del Consorzio nazionale olivicoltori italiani.
Negli anni pre xylella la provincia di Lecce rappresentava l’8 percento della produzione di olio a livello nazionale. Dopo la diffusione del batterio è sotto il 5 percento.Un dato in costante diminuzione dalla scoperta del batterio, nell’ottobre 2013, che ha infettato circa 21 milioni di ulivi e provocato un danno stimato (al ribasso) di 1 miliardo e 200 milioni di euro. Sono coinvolte le 251 aziende olivicole presenti nella sola provincia di Lecce, che salgono a 490 se si considerano anche Brindisi e Taranto. «Nella mia azienda c’erano 18 dipendenti e ora siamo rimasti in 5. Lo vedi questo oleificio? Tra qualche mese non ci sarà più, l’ho venduto», dice Melcarne indicando il moderno impianto alle sue spalle. «Prima si vendeva anche la legna della potatura, adesso non si fa più perché gran parte degli alberi sono morti». Si stima l’area infetta da xylella in 85000 ettari. «Le zone infette nel 2013 riguardavano 8000 ettari, aumentati oggi fino a 170.000. La possibilità di trovare piante non infette nella zona a sud di Lecce sono pochissime. In questa zona la raccolta delle olive sarà una rarità e gran parte dei frantoi resteranno purtroppo fermi», dice Giovanni Cantele, presidente Coldiretti della provincia di Lecce. Poi avverte: «non apriranno nemmeno in alcune fasce della provincia di Brindisi e di Taranto dove c’è produzione per i prossimi due o tre anni ma con un calo progressivo come nella provincia di Lecce».
Un futuro complesso con poche risorse – L’epidemia di xylella cambierà la campagna salentina, che probabilmente in futuro non sarà più dominata dagli alberi secolari. «Quello che manca oggi è un programma di costruzione e rigenerazione, tutte le aree dovrebbero essere studiate e mappate e le autorità dovrebbero indirizzare gli agricoltori in funzione delle peculiarità del territorio. Alcuni ettari, le zone più depresse e fredde, si potrebbero destinare alla viticoltura », immagina Melcarne. Gli fa eco Cantele: «Le prospettive sono complesse per questo settore agricolo di monocoltura in una situazione di olivicoltura secolare. Per le zone rocciose si potrebbe pensare a un rimboschimento ad esempio, come nella zona di Ugento».
Per ora il territorio resiste ma dal campo non arrivano segnali incoraggianti. Il valore dei terreni è crollato, molte campagne sono state abbandonate, le discariche abusive si moltiplicano insieme agli incendi, le banche non concedono prestiti agli imprenditori. Le risorse a disposizione sono scarse. A fronte di una perdita di 1 miliardo e 200 milioni di euro dalla comparsa di xylella finora nelle casse degli olivicoltori salentini sono arrivati solo 11 milioni di euro risalenti al piano Silletti. Il piano Centinaio, promesso a a dicembre 2018, dovrebbe garantire 220 milioni di euro fino al 2020 per la dismissione e la riconversione dei frantoi, che rischiano di chiudere nel giro di 12 mesi.