«Palestinian LIves Matter». Il nuovo vecchio slogan che si alza dal Congresso americano rischia di creare non pochi problemi a Joe Biden. A una settimana dall’inizio dell’escalation di violenza nella striscia di Gaza, il Partito Democratico si scopre diviso al suo interno. Riconquistata la Casa Bianca, ora il presidente degli Stati Uniti deve gestire il malcontento del suo partito per la gestione – o meglio la non gestione – del conflitto in Medio Oriente da parte del governo Usa. È ancora una volta l’ala progressista dei dem a farsi portavoce delle sofferenze del popolo palestinese – 192 morti in una settimana, tra cui 58 bambini e 34 donne. Voci di dissenso che hanno il volto di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez. In un editoriale affidato alle colonne del New York Times, il senatore del Vermont ha descritto il premier israeliano Netanyahu come un «nazionalista intollerante, razzista, autoritario e anti-democratico», chiedendo a Biden un «approccio imparziale» nei negoziati di pace. Ancora più dura Ocasio-Cortez, la più giovane parlamentare mai eletta al Congresso, da sempre attenta ai diritti civili e delle minoranze: «Gli Stati di apartheid non sono democrazia».
Apartheid states aren’t democracies.
— Alexandria Ocasio-Cortez (@AOC) May 15, 2021
Netanyahu: «Usa ci sostengono» – A gettare benzina sul fuoco è stato Benjamin Netanyahu che, nella giornata del 16 maggio, aveva rivendicato l’offensiva contro Gaza forte della benedizione del suo alleato storico: «Abbiamo il sostegno americano e lo usiamo. L’operazione militare nella Striscia prosegue». All’indomani della telefonata con il presidente Biden, il plurieletto premier israeliano ha ringraziato inoltre gli Stati Uniti per «il loro incondizionato appoggio al diritto dello Stato ebraico di difendersi». Un diritto che, a quanto pare, non si allarga alla Palestina. Eppure una telefonata c’era stata, nella serata del 15 maggio, anche con il leader dell’Autorità palestinese Abu Mazen, in cui Biden aveva assicurato il forte impegno statunitense per il cessate il fuoco. Un impegno che al momento si è tradotto nell’invio del vicesegretario di Stato Hady Amr come mediatore, ma anche nelle tensioni durante il Consiglio di sicurezza dell’Onu. La Cina, dopo essersi offerta – come la Russia – di ospitare i negoziati di pace, ha infatti accusato gli Usa di non aver voluto firmare la dichiarazione congiunta proposta da Pechino: «A causa dell’ostruzionismo di un Paese, il Consiglio non è riuscito a parlare con una voce sola», ha detto il ministro degli Esteri cinese Wang Yi. Un veto che ostacola i canali diplomatici, e potrebbe ritardare una mediazione necessaria per arrivare a una nuova tregua.
Tensioni politiche – Non c’è solo l’ala più estrema della sinistra americana a premere su Joe Biden. Anche diversi deputati centristi come David Price della Carolina del Nord e John Yarmuth del Kentucky, punto di riferimento della comunità ebraica, hanno espresso il loro disappunto: «Condanno Netanyahu perché ha sì il diritto di difendere il Paese, ma non quello di uccidere colpevolmente civili innocenti». Il dissenso del Congresso rispecchia quello dell’opinione pubblica americana. Se da una parte il movimento Black Lives Matter ha subito legato la questione palestinese a quella afroamericana, dall’altra c’è la comunità ebraica statunitense che percepisce con distacco sempre maggiore la causa di Israele. Il rischio ora per Biden è quello di rimanere schiacciato tra la politica storicamente filoisraeliana portata avanti dagli Usa e le istanze liberal della maggioranza. Il presidente per ora resiste, proseguendo sulla falsariga del suo discusso predecessore Donald Trump. E proprio la mancanza di discontinuità con il tycoon, se unita al prosieguo del conflitto, potrebbe far vacillare non solo il suo governo, ma anche la tenuta sociale degli Stati Uniti. Ancora una volta.