I parenti di una famiglia morta sotto i bombardamenti nel sud di Gaza pregano fuori dall’ospedale di Khan Younis (foto Ansa/Epa/Haitham Imad)

I tank israeliani sono entrati nel sud della Striscia di Gaza. Prima dell’invasione di terra, agli abitanti delle città a nord era stato detto di scappare proprio a sud. Ora ai residenti e i rifugiati di Khan Younis è arrivato l’ordine di muoversi verso Rafah, vicino al confine con l’Egitto. È stata fornita una mappa a blocchi che indica quali sono le zone da evacuare: il New York Times ha notato che dalle 19 comunicate inizialmente, sono diventate 34.

«Non ci sono zone sicure» – Gli sfollati che si sono spostati a sud sono circa 2 milioni, secondo le stime dell’Onu: prima della guerra, solo Khan Younis aveva una popolazione di circa 400mila persone. Queste persone continuano a spostarsi sempre di più verso il confine con l’Egitto, man mano che l’esercito avanza. Nessuno però può uscire dalla Striscia: il valico di Rafah, che era stato aperto per far entrare gli aiuti umanitari, rimane chiuso nella direzione opposta. «Non ci sono zone sicure. Ci fanno cercare rifugio, e poi bombardano aree densamente popolate», ha detto a Reuters Salah Al-Arja, un abitante di Rafah. Intanto, l’esercito israeliano ha fatto sapere di aver colpito almeno 200 obiettivi di Hamas, tra cui una “infrastruttura” sotto una scuola e di aver ucciso uno degli ideatori dell’attacco del 7 ottobre. Lunedì 4 dicembre i militari hanno distrutto la Corte suprema di Hamas a Gaza City.

Il piano a lungo termine – «Il premier Benjamin Netanyahu crede ancora di poter spingere alcuni palestinesi verso il Sinai, e magari quelli della Cisgiordania verso la Giordania», ha detto ad Al Jazeera il professor Mohammed Cherkaoui della George Mason University. Quale sia il piano a lungo termine di Israele è una domanda che i suoi alleati continuano a porre. In una telefonata con il presidente israeliano Isaac Herzog la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris ha sottolineato la necessità di un progetto per il “post-Gaza”, insistendo sulla soluzione a due Stati. Un diplomatico ha anche detto a Haaretz che i Paesi occidentali vorrebbero dei chiarimenti sulla possibilità di creare una “zona cuscinetto” nella Striscia per prevenire attacchi terroristici: per il momento, l’ipotesi è stata ventilata dagli Stati Uniti ad Israele senza fornire dettagli su quanto dovrebbe durare la misura.

I negoziati – Mentre ragionano con il proprio alleato sul futuro della Palestina, gli Stati Uniti cercano di ridare vita ai negoziati tra Israele e Hamas: una nuova tregua e una nuova liberazione di ostaggi sono gli obiettivi della diplomazia al momento. Sono 105 gli ostaggi liberati fino a ora: Osama Hamdan, un rappresentante di Hamas in Libano, ha detto domenica che non ci saranno altri rilasci finché Israele non cessa gli attacchi, come ha riportato il New York Times. Nel pomeriggio di lunedì 4 dicembre, una delegazione degli Stati Uniti, composta tra gli altri dal consigliere per la sicurezza nazionale della vicepresidenza Phil Gordon e dal consigliere per il Medio Oriente Ilan Goldenberg, hanno programmato incontri con funzionari israeliani e con il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas, in Cisgiordania.

I parenti si sentono inascoltati – Le famiglie degli ostaggi, tuttavia, non possono aspettare i tempi della diplomazia e richiedono al gabinetto di guerra il riavvio dei negoziati. «La vostra indifferenza verso di noi è una disgrazia. Se non avete interesse nel rappresentarci, ci rivolgeremo a un’entità internazionale che sia disposta a farlo», ha detto Daniel Lifshitz, nipote di una coppia di ostaggi: lei è stata tra le prime a essere rilasciate, il marito è ancora prigioniero. L’ufficio del primo ministro ha fatto sapere su X che un incontro con le famiglie era già stato fissato per mercoledì ma, «in vista della richiesta, si esaminerà la possibilità di anticipare l’incontro».

Netanyahu torna a processo – Se le richieste non fossero ascoltate, le famiglie sono pronte a intensificare le proteste. Sabato si è tenuta una manifestazione davanti alla casa del premier Benjamin Netanyahu, sempre più contestato. La notizia rivelata dal New York Times secondo cui vertici israeliani avrebbero saputo qualcosa dell’attacco di Hamas da almeno un anno, è stata forse il colpo più grosso alla reputazione del premier. Non aiuta la sua posizione il fatto che, con la riapertura delle corti di giustizia, è ricominciato lunedì 4 dicembre a Gerusalemme un processo a suo carico per frode e corruzione, più volte rimandato durante la pandemia.