«Dica al suo cliente che la minerale è finita». Antonio Di Pietro, all’epoca sostituto procuratore della Repubblica, fece riferimento all’acqua per comunicare all’avvocato Nerio Diodà che aveva scoperto i conti svizzeri dell’ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro di spicco del Partito Socialista milanese. Quei conti, stipati di fondi illeciti provenienti dalle tangenti, si chiamavano Levissima e Fiuggi. Due sorgenti da cui Chiesa si era abbeverato per anni, fino alla sera del 17 febbraio 1992, quando era stato arrestato in flagranza mentre intascava una tangente da 37 milioni da parte dell’imprenditore monzese Luca Magni. Avuto il sentore dell’arrivo dei militari, Chiesa aveva tentato di fare sparire le banconote incriminate gettandole nel water, ma questo non era sufficientemente capiente: così, in un tourbillon di banconote umidicce, finì simbolicamente la prima Repubblica.

Un terremoto –
«Il partito socialista milanese è del tutto estraneo a questa vicenda» disse Bobo Craxi la sera stessa. Non immaginando, evidentemente, che nel giro di un paio di mesi sarebbero tutti finiti sotto inchiesta con le medesime accuse. A rincarare la dose ci pensò l’altro e ben più celebre Craxi, Bettino, che qualche giorno dopo aggiunse: «Chiesa è un mariuolo che getta ombra su tutto il partito, una delle vittime di questa storia sono proprio io». Lo stesso destino del presidente della Baggina sarebbe toccato al segretario del Psi alla fine di quell’annus horribilis della Repubblica che fu il 1992: i primi due avvisi di garanzia gli vennero consegnati il 15 dicembre. E come a lui, a tutti gli altri officianti di quella liturgia politica che fu la Prima repubblica: Arnaldo Forlani, Renato Altissimo, Giorgio La Malfa. Capofila di una lista di inquisiti composta di migliaia di nomi che dagli ex presidenti del Consiglio scendeva fino a semplici appuntati della Guardia di Finanza. I numeri dipingono l’ecatombe: 2.565 indagati, 1.408 condannati, 544 assolti, 448 prescritti. 140 miliardi di euro versati allo Stato come risarcimento. E sugli schermi tv la visione quotidiana di vertici alti e altissimmi della classe imprenditoriale italiana interrogati come imputati o, quando andava bene, “persone informjate” dei fatti, laddove i fatti erano mazzette miliardarie. Ma anche tragedie come i suicidi del deputato socialista Sergio Moroni, del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari e dell’imprenditore Raul Gardini, fino a poco tempo prima padrone della chimica italiana.

Giustificazioni creative – Da Milano le inchieste si allargarono al resto del Paese, ma è sotto la Madonnina che andarono in scena gli atti più memorabili di quel biennio. L’aula del palazzo di giustizia trasformata in un palcoscenico dal quale ogni giorno venivano trasmesse, in diretta, le sventure degli imputati sottoposti alle domande di Antonio di Pietro. E ognuno trovava una giustificazione differente. Paolo Cirino Pomicino, già potentissimo ministro del Bilancio di origini napoletane – “o’ ministro”, lo chiamavano all’ombra del Vesuvio – contestò la cifra della tangente: «Mi scusi, ma i miliardi erano cinque, non quattro e mezzo». Questione di tariffario. Il “coniglio mannaro” Arnaldo Forlani abbassò le orecchie davanti al magistrato molisano: «Io non mi sono mai occupato del finanziamento al partito», si giustificò davanti alle telecamere che catturarono la sua bava alla bocca. Approccio diametralmente opposto adottò Bettino Craxi, in omaggio all’adagio “l’attacco è la miglior difesa”. E sprezzante confessò tutto in quell’aula, dopo che in un’altra, quella di Montecitorio, aveva ammesso che tutti partecipavano alla spartizione delle mazzette.

Monetine – Ma l’ormai popolarissimo Di Pietro, insieme agli altrettanto celebri colleghi del pool di magiustrati della Procura Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, aveva compilato la lista delle spese che Craxi s’era concesso con i soldi delle tangenti prima di volare ad Hammamet: case a Milano, Cortina e New York, un aereo privato, persino una televisione privata (l’intera stazione, non l’apparecchio) per l’amante Anja Pieroni. Altri invece avevano preferito investire in beni rifugio più affidabili. Duilio Poggiolini, imperatore della sanità campana che aveva arredato il salotto di casa con un divano foderato di lingotti d’oro. Quando fu il momento del sequestro, la finanza si presentò al citofono con due tir. Vuoti.