Propaganda, fake news, sensazionalismo e perfino immagini di War Thunder, famoso videogioco di guerra. Come stanno raccontando il conflitto in Ucraina i media italiani? E qual è il ruolo dei social media in quello che in molti hanno definito come il periodo più buio dell’Europa contemporanea? La Sestina lo ha chiesto al professor Fausto Colombo, direttore del Dipartimento di Scienze della Comunicazione e docente di Teoria della comunicazione e dei media all’Università Cattolica di Milano.

Giornali e tv italiani stanno facendo un buon lavoro nella narrazione del conflitto in Ucraina?
Credo che stiano facendo un discreto lavoro, in un momento estremamente difficile dove tutto si accavalla. I mezzi di comunicazione più tradizionali stanno producendo anche tanta buona informazione. Questo non vuol dire che in giro non ci siano spazzatura ed errori. In momenti come questi, eccezionali e di emergenza, i media possono dare insieme il meglio e il peggio. Quello di oggi è un ambiente informativo molto turbolento, denso ed entropico, con informazioni che arrivano da ogni direzione, inclusi i social. Si ha l’impressione che con la guerra la verità muoia, sommersa dalla propaganda e dalla violenza. Per fortuna però ogni tanto risorge.

Cosa rende un media una buona fonte informativa? E come si fa a distinguere una testata attendibile da una che diffonde fake news o notizie fuorvianti?
Quando ci si ritrova in queste situazioni eccezionali e d’emergenza, come la guerra, la grande differenza la fa il fatto che i media abbiano inviati sul territorio o fonti solide e robuste. La differenza tra una testata che ha collegamenti sul campo e una che invece si limita a riportare le agenzie è evidente. In queste situazioni i media riescono a dare il loro meglio solo se possono contare su salde radici, su invitati, informatori e commentatori competenti. Altro elemento che aiuta a distinguere una buona informazione da una cattiva è la tonalità. In momenti come quelli che stiamo vivendo oggi la tonalità che “acchiappa” di più, ovvero quella che genera più clickbait, è quella allarmistica e sensazionalista. Le argomentazioni più fredde che cercano di vedere i pro e i contro richiedono non solo competenza specifica ma anche un pubblico disposto ad agire razionalmente. Questo fenomeno interessa anche testate giornalistiche e telegiornalistiche italiane, anche quelle tradizionalmente più rispettate e attendibili.

Quella in Ucraina è stata da molti definita come la prima guerra ai tempi dei social. Come influisce sulla narrazione del conflitto l’utilizzo di piattaforme come Instagram e Twitter?
L’impatto è sicuramente diverso. Ma questo non è il primo caso. Ci sono stati dei precedenti, come le primavere arabe o il caso afghano, che però non hanno avuto lo stesso impatto. Pensiamo per esempio al tentato golpe in Turchia, durante il quale Erdogan fece uso dei social per comunicare direttamente con la popolazione. L’uso dei social è interessante perché permette una forte personalizzazione dell’informazione da parte dei politici che li utilizzano. Oggi vediamo Zelensky, che usa Twitter per parlare direttamente per il suo popolo e al suo popolo. Quello che traspare è il timbro della sincerità. Putin, al contrario, fa delle dichiarazioni più tradizionali, costruite e meno immediate perché filtrate attraverso intermediari, agenzie, media. Però i social sono anche un’altra cosa. Anche l’uso dei social ha perciò una doppia valenza. Da un lato ci offrono la possibilità di personalizzare i messaggi e di arrivare direttamente e con sincerità al pubblico. Dall’altro creano un ambiente informativo molto complesso in cui distinguere il vero dal falso, la propaganda dalla buona informazione, diventa sempre più complicato. Creano un terreno in cui le informazioni circolano velocemente e perciò spesso non testate.

Sempre più giovani si informano (solo) tramite social, dove le pagine che diffondono e semplificano informazioni complesse si moltiplicano giorno dopo giorno. Sono utili o costituiscono una minaccia per la buona informazione?
Non è il mezzo che rende la testata attendibile ma la testata stessa. Ci sono delle fantastiche occasioni di informazione sui social, alcune di approfondimento, altre di semplificazione e fact checking. Quello che fa la differenza è il tempo che si prendono. Le pagine che si occupano di informazione sui social non sono quasi mai “ricicli”, ovvero sharing di notizie altrui appena arrivate. Offrono il più delle volte delle analisi, spesso semplificate, utili a chiarire alcuni punti complessi della situazione che stiamo vivendo. Il problema è che bisogna sapere dove andare a cercare.
In situazioni come la guerra, dove si ha paura e si è angosciati, molti utenti sui social si accontentano di quelle informazioni che si trovano nel posto più vicino, più semplici o più angoscianti. Queste però non sempre sono attendibili. E se l’utente reitera i comportamenti di ricerca finisce in una bolla informativa. Bisogna prendersi del tempo per approfondire le notizie, verificarle.

Tempestività e qualità non sono infatti sempre compatibili.
La questione temporale è fondamentale. Quando ci si ritrova in situazioni drammatiche si percepisce un’enorme fame di notizie immediate. Non si ha il tempo (o si pensa di non averlo) di fare fact checking, controlli e riflessioni. Ecco perché secondo me la serietà di una testata non dipende dal suo nome, ma dal comportamento che adotta in una specifica situazione.
E il discorso non vale solo per le notizie in senso stretto, ma anche per le immagini che vengono utilizzate. Vanno sempre testate, soprattutto per quanto riguarda la fonte e il contesto, perché possono essere fuorvianti in quanto apparentemente evidenti. Spesso si accreditano immagini fittizie o pertinenti con qualcosa di completamente diverso. E questo è legato in parte al tempo e in parte a una mancanza di professionalità. Testare un’immagine è importante, al di la della credibilità delle fonti.