La deputata Piera Aiello, entrata in Parlamento con il Movimento 5 Stelle nel 2018 e dal 2020 nel Gruppo Misto, è la prima parlamentare nella storia della Repubblica italiana con lo status di testimone di giustizia. Nel 1991 iniziò a collaborare con il giudice Paolo Borsellino in seguito all’assassinio del marito, figlio del mafioso partannese Vito Atria. Oggi, in qualità di presidente del Sottocomitato della commissione parlamentare Antimafia, lavora per rivelare i malfunzionamenti del sistema a tutela dei pentiti e denuncia il comportamento dei Nop (Nuclei operativi di protezione) nei confronti di collaboratori e testimoni di giustizia, di cui ha raccolto le testimonianze.

Onorevole Aiello, lei ha audito più di 60 persone tra collaboratori di giustizia, testimoni e imprenditori vittime di racket e usura: cosa le hanno detto sul sistema di protezione in cui sono inseriti?
«Non posso rivelare nei dettagli le loro testimonianze, ma quello che emerge è una lunga serie di soprusi, dalla violazione del diritto allo studio a quello alla salute, da genitori minacciati di essere privati della patria potestà a episodi di appropriazione indebita di denaro. Ma, soprattutto, molti parlano di identità segrete svelate, di coperture saltate e dati non oscurati. Ovviamente sono dichiarazioni che vanno accertate, e questo è compito della magistratura, ma se 60 persone che non si conoscono tra di loro mi dicono la stessa cosa, un fondamento di verità ci deve essere».

Come si spiega la possibile esistenza di queste violazioni all’interno degli organismi statali?
«Intanto chiariamo la struttura: il programma di protezione è gestito dalla Commissione centrale ex art. 10 guidata da un presidente politico (attualmente il sottosegretario di stato all’Interno, il leghista Nicola Molteni, n.d.r.) e composta da forze dell’ordine e magistrati. È la Commissione a coordinare le azioni del “braccio esecutivo”, il Servizio centrale di protezione, articolato in 19 Nuclei operativi, i Nop. Ecco, io credo che ci siano solo alcuni “infedeli” dello Stato che non si comportano bene a vari livelli. Spero di cuore che siano persone che agiscono in maniera sbagliata per ignoranza o incompetenza, perché altrimenti dovrei pensare che c’è un dolo, e questo sarebbe veramente grave».

Parleremmo di poche mele marce…Quindi il programma in generale funziona?
«Non direi. Tutto il sistema di protezione necessita di una riforma. La regola fondamentale del programma dovrebbe essere quella di proteggere le persone inserite al suo interno, di cui lo Stato ha scelto di farsi carico, ma questo non sta avvenendo. E in 30 anni di vita non ha fatto che peggiorare. È totalmente assente la tutela del reinserimento socio-lavorativo, come l’assistenza psicologica. Parliamo di 4.500 persone tra collaboratori, testimoni e familiari, di cui 400 sono minori, allontanate dal loro territorio, private della loro identità, chiaramente devastate dal punto di vista psicologico, che hanno bisogno dello Stato e hanno diritto a vivere dignitosamente».

Come vivono queste persone?
«Male. Molti rimangono chiusi in casa tutto il giorno, perché hanno paura di uscire ed essere riconosciuti, anche perché vivere in una località protetta non si traduce automaticamente in un’immunità assoluta. Le mafie ormai hanno occhi ovunque. Molti non riescono a trovare lavoro e, se lo trovano, i Nop spesso impediscono di accettarlo, perché li sottoporrebbe a rischi eccessivi. Ma non puoi tenere le persone per 15, 20 anni dentro un programma d protezione a spese dello Stato e non prevedere nessun reinserimento, è assurdo. Oltretutto il sostegno è spesso insufficiente: negli anni hanno progressivamente tagliato i finanziamenti al programma (dagli 89 milioni del 2018 ai 60 del 2021, n.d.r.) e questo risparmio è ricaduto sulle vite dei pentiti. Ci sono famiglie di tre persone con un figlio disabile a carico che devono vivere con 500 euro al mese. Come si fa?»

Persone che sono in una condizione di fragilità e disagio rispetto al sistema, che hanno scelto di rivolgersi a lei. Perché?
«Perché non hanno altri cui rivolgersi. Hanno paura di denunciare, perché temono di essere buttati fuori dal programma alla prima lamentela o protesta. Senza protezione sono persone morte, allora subiscono. Ma il messaggio che passa da parte dello Stato è terribile: ti accogliamo a braccia aperte perché ci fai comodo, poi dopo averti spremuto ti abbandoniamo. E questo chiaramente disincentiva le persone a denunciare».

Dopo mesi di richieste, mercoledì 16 marzo verrà finalmente ascoltata dalla Commissione centrale come persona informata sui fatti. Qual è il passo successivo?
«Intanto spiegherò alla Commissione quello che sta succedendo, poi sarà loro compito ascoltare cosa hanno da dire queste persone. Finora ho visto impegno e disponibilità solo da parte del Direttore del Servizio centrale di protezione, Nicola Zupo, ma è arrivato il momento per la Commissione di prendersi carico seriamente di queste segnalazioni, rimaste per troppo tempo inascoltate o addirittura nascoste. Il passo seguente per me è la Procura, dove depositerò il dossier con tutte le testimonianze per permettere alla magistratura di indagare e accertare la presenza di queste violazioni. Ma non mi fermerò qui, perché questa cosa deve emergere a tutti i costi: ho messo su un gruppo di avvocati per rivolgermi alla Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo. L’Unione Europea deve sapere quello che succede qui in Italia».