Al Corriere della sera c’erano giornalisti che si erano comprati un’arma. Per sentirsi più al sicuro. Lo racconta Ferruccio de Bortoli, compagno di redazione di Walter Tobagi nel 1980. Un decennio di piombo e sangue aveva abituato il Paese ai peggiori orrori. Minacce di morte, rapimenti, esecuzioni, bombe. C’è stato perfino bisogno di inventare il verbo “gambizzare” per descrivere certi agguati. Quarant’anni fa, la mattina del 28 maggio 1980, il giornalista Walter Tobagi fu assassinato dal terrorismo di sinistra. Cinque colpi di pistola in una fredda e piovosa mattina di maggio. A 33 anni, sotto casa. Ma ricordarlo solo per questo non sarebbe giusto. Vorrebbe dire fare un favore a chi lo voleva martire. Walter Tobagi era molto di più. Era qualcuno che sapeva fare il mestiere del giornalista. Era uno sguardo lucido sulla palude di ideologie che l’Italia del suo tempo era diventata. E la sua storia di “testimone del proprio tempo”, come si definì lui stesso, non può essere dimenticata.
Gli inizi – Il talento del giovane Walter si manifesta già alle superiori. Studia al Parini, il liceo classico milanese per antonomasia. La famiglia di origini umbre si è trasferita nel capoluogo lombardo nel 1955, quando Walter aveva sette anni. Tra una lezione e l’altra, scrive per il giornale studentesco La Zanzara, dove già prima del ’68 scalpitano le voci più giovani e irrequiete. Nel 1965 scrive un articolo sulle abitudini di lettura dei suoi coetanei. Si rende conto che quegli studenti leggono poco e male i quotidiani. Anche chi dice di leggerli per intero, in realtà dà una veloce scorsa a titoli, occhielli e sommari. Tra i banchi del Parini, Walter Tobagi è già Walter Tobagi. La curiosità e lo studio meticoloso della realtà lo guideranno per tutta la vita. Le sue capacità non sfuggono a Leonardo Valenti, direttore dell’Avvenire, giornale in cui Tobagi si forma. «Svolgeva una mole di lavoro enorme per un pezzo di due cartelle. Ma quando finalmente si metteva alla macchina da scrivere si poteva esser certi che dal rullo sarebbero uscite due cartelle di oro colato». Tra i mille argomenti che lo appassionano, nei tre anni all’Avvenire si occupa in modo approfondito del movimento studentesco e del rapporto con il movimento operaio. Siamo tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70. Tobagi inizia a tenere d’occhio le frange più violente della contestazione. Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia Operaia e ovviamente le nascenti Brigate Rosse
Al Corriere – Quando nel 1972 approda al Corriere della Sera, è un cronista specializzato in politica, sindacalismo e terrorismo. Nemmeno nel periodo più turbolento della politica italiana, Walter Tobagi perde il contatto con quello che oggi chiameremmo il “Paese reale”. Nel 1978, anno tesissimo in cui Aldo Moro viene rapito e ucciso, scrive il reportage La crisi di governo vista da Pizzighettone. Nel comune del Cremonese parla con il bancario, il pizzaiolo, il barista. Da questi tira fuori quel linguaggio “di pancia” che avrà tanta fortuna nella politica degli anni a venire. «I politici fanno schifo dovrebbero andare tutti a San Vittore» e anche «Mangiano, mangiano e quando li scoprono, entrano da una porta ed escono dall’altra». Nella piazza come nel palazzo, Tobagi tiene sempre le antenne drizzate per captare ogni segnale di cambiamento. Nello stesso anno segue il congresso del Partito comunista italiano a Napoli. Fra i dirigenti prende la parola Giorgio Napolitano che parla di un momento in cui è necessario «assumersi una responsabilità di governo». Tobagi intuisce che il Paese si sta avviando alla svolta epocale del possibile “compromesso storico” tra Pci e Democrazia Cristiana.
Il terrorismo – Walter Tobagi vive e racconta gli anni più tesi della storia della Repubblica. Da una parte le esecuzioni dell’estrema sinistra. Dall’altra le bombe dell’estrema destra. Ma Tobagi non è interessato a schierarsi in quell’assurdo gioco al massacro. A lui sta a cuore quel cuscinetto riformista che, sopravvivendo tra i due estremi, fa sopravvivere il Paese. La sua capacità di leggere la realtà sarà purtroppo la sua condanna a morte. Nel 1979, nel suo articolo Vivere e morire da giudice a Milano, Tobagi racconta la storia del procuratore Emilio Alessandrini assassinato a 36 anni da Prima Linea: un magistrato che indagava con zelo sui gruppi estremisti sia di destra che di sinistra. Scrive Tobagi: «Alessandrini rappresentava quella fascia di giudici progressisti ma intransigenti, né falchi chiacchieroni né colombe arrendevoli». Tobagi intuisce la strategia delle Brigate Rosse e in generale dei movimenti della lotta armata di sinistra. Il loro piano non è tanto quello di colpire la destra, ma di eliminare l’argine composto dai riformisti in modo da arrivare più in fretta allo scontro frontale. La voce di Walter Tobagi diventa troppo scomoda non solo perché lui stesso è un riformista, ma anche perché ha capito che le Br sono al capolinea. Per la prima volta non sembrano così imbattibili. Il covo di via Fracchia a Genova viene scoperto, i primi pentiti cominciano a parlare con lo Stato e il grosso della classe operaia si dissocia dalla lotta armata. Con il suo celebre articolo del 20 aprile 1980 Non sono samurai invincibili, Walter Tobagi mette in dubbio l’efficienza del gruppo eversivo. «È tanto estesa, dunque, l’organizzazione brigatista, o non ci si trova di fronte a un gioco degli specchi per cui un gruppo di poche decine riesce a sembrare un piccolo esercito?».
Le ultime ore – Walter Tobagi passa l’ultima sera della sua vita a dibattere sulla libertà di stampa e sulla responsabilità del giornalista di fronte all’offensiva dei terroristi. Lo fa a un incontro al Circolo della stampa di Milano. È il 27 maggio del 1980. Parlando dei giornalisti strumentalizzati per violare il segreto istruttorio dice: «Chissà a chi toccherà la prossima volta». Una frase che, letta a posteriori, suona come una macabra profezia. Le ultime chiacchiere con i colleghi e poi il rientro a casa dove lo aspettano la moglie e i due figli piccoli. La mattina dopo, alle 9:30, scende in via Salaino per andare al giornale, come ogni giorno. Un commando di terroristi, che lo sorveglia da giorni, entra in azione. Partono cinque colpi di pistola sparati, si saprà poi, da due diversi killer, e il suo corpo cade sull’asfalto. I pesanti telefoni di bachelite nera della redazione del Corriere squillano all’impazzata tra i colleghi increduli. «Ma forse non è morto» dice uno di loro. «No, nulla da fare, Walter è morto».
L’agguato – Tobagi lascia la moglie Maristella e i due figli Luca, 6 anni, e Benedetta, 3. Nelle ore immediatamente successive, l’attentato è rivendicato dalla Brigata XXVIII Marzo. Si scoprirà che quella mattina, appostati in via Salaino, c’erano Paolo Morandini, Francesco Giordano, Daniele Laus, Manfredi De Stefano, Mario Marano e Marco Barbone. È di quest’ultimo quello che per molto tempo è stato considerato il colpo di grazia. Il proiettile di Barbone colpisce dietro l’orecchio sinistro, quando Tobagi è già a terra, abbattuto dagli spari di Marano. L’autopsia rivelerà in seguito che in realtà per la morte fu determinante la pallottola che lo raggiunse al cuore. Colpo fatale o no, la figura di Marco Barbone è fondamentale. Perché è suo il pentimento giudiziario che darà una svolta alle indagini e porterà non solo all’arresto degli esecutori di Tobagi, ma allo smantellamento dell’organizzazione responsabile dell’agguato. Perché sua era la direzione della Brigata XXVIII Marzo, la stessa che solo 3 settimane prima dell’omicidio di Tobagi aveva rivendicato la sparatoria a Guido Passalacqua, giornalista di Repubblica, colpito alle gambe, gambizzato come si diceva allora con un tragico neologismo. Ma andiamo con ordine.
Il blitz di via Fracchia – Due mesi prima dell’omicidio di via Salaino, un altro episodio, nella Genova industriale del 1980, entra nella storia del terrorismo italiano. Siamo in via Umberto Fracchia 12, quartiere Oregina, dove le strade della città risalgono ripide le sue colline. Quartiere di operai che sovrasta il porto, tra i suoi tornanti si nasconde un covo di brigatisti, individuato dai carabinieri di Genova grazie alle informazioni rivelate da Patrizio Peci, arrestato nel febbraio di quell’anno a Torino e primo militante delle Brigate Rosse a collaborare con gli inquirenti. Sono gli uomini coinvolti nell’omicidio del 24 gennaio 1979 di Guido Rossa, sindacalista e operaio all’Italsider di Genova, colpevole di aver denunciato un collega che distribuiva volantini delle BR. Non era mai successo che un operaio denunciasse un collega svelandone i legami col terrorismo. Era la prima volta che le Brigate uccidevano un esponente della classe sociale che dicevano di rappresentare. Il 28 marzo furono loro a essere uccisi: il capo della colonna genovese delle Brigate Riccardo Dura, Annamaria Ludmann, Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli morirono sotto i colpi sparati dai carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, in uno scontro a fuoco dai contorni mai del tutto chiariti. A scrivere di via Fracchia per il Corriere della Sera fu Walter Tobagi, che il 29 marzo, nell’articolo Adesso si dissolve il mito della colonna imprendibile, mise nero su bianco, sul primo quotidiano d’Italia, quello che molti brigatisti non volevano sentire: l’inizio della loro fine.
XXVIII Marzo – È in onore dei morti di via Fracchia che uno studente 22enne di Lettere dell’Università Statale di Milano nel maggio di quell’anno fonda la Brigata XXVIII Marzo, raccogliendo proseliti in altre formazioni della sinistra estremista. Si chiama Marco Barbone, figlio di uno dei dirigenti della Sansoni, casa editrice del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera. Le carte dei magistrati dimostreranno come furono in tutto 19 gli affiliati a questa organizzazione. Quattro mesi dopo l’esecuzione di Walter Tobagi, nel settembre 1980, Barbone viene arrestato per reati minori. Nel 1985, nel processo davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Milano, Barbone ricorda: «Quando lessi il mandato di arresto, non c’erano riferimenti alla XXVIII Marzo o a Tobagi». Il 2 ottobre, durante il primo interrogatorio, ancora nessuna menzione di quanto successo quella mattina di maggio. Eppure, già la sera del 4 ottobre, Barbone inizia a parlare. Aveva chiesto un giorno prima di incontrare il generale Dalla Chiesa. Furono forse le rassicurazioni per sé e per i suoi famigliari ottenute durante quel colloquio a convincerlo. O fu forse un pentimento sincero per quanto commesso, come dirà più tardi ai giudici. Ad ogni modo, Barbone fa nomi. Collabora. Anche grazie a lui saranno poi incarcerati più di cento sospetti protagonisti della lotta armata, con cui Barbone era entrato in contatto negli anni della sua militanza, iniziata nel 1977.
Il processo e le condanne – Centodue udienze, dal primo marzo al 28 novembre del 1983, al termine delle quali Marco Barbone fu condannato a 8 anni e 9 mesi in carcere, come chiesto dal procuratore Armando Spataro. Dopo 3 anni, gli fu concessa la libertà provvisoria. Stessa condanna per Morandini, anche lui diventato collaboratore di giustizia e quindi beneficiario degli sconti di pena previsti dalla cosiddetta ”legge sui pentiti” del 1982. Sorte diversa per gli altri tre uomini che non vollero collaborare. De Stefano fu condannato a 28 anni e 8 mesi in carcere, dove morì nel 1984, a Udine, in seguito a un aneurisma. Ventisette anni e otto mesi per Laus, che confessò ma poi ritrattò e aggredì il giudice istruttore con un punteruolo, ridotti a 16 in secondo grado. Ottenne la libertà provvisoria nel 1985. Marano fu condannato a 20 anni e 4 mesi, scesi a 12 in appello, poi a 10 per un condono, finiti di scontare ai domiciliari dal 1986. L’unico a scontare la condanna per intero fu Giordano, condannato a 30 anni e 8 mesi in primo grado e a 21 in appello. Negli anni successivi al processo, in molti rimase il dubbio se fossero state individuate proprio tutte le persone coinvolte nella morte di Tobagi o se a essere condannati furono solo gli esecutori e non anche gli eventuali mandanti, se ce ne furono.
Caterina Rosenzweig – Pene e condanne a parte, una verità processuale è stata raggiunta e la giustizia sembra aver fatto il suo corso. Ancora oggi, però, restano ombre sulla vicenda. Non fu mai chiarito, ad esempio, il ruolo di Caterina Rosenzweig, figlia di una ricca famiglia milanese, ai tempi fidanzata con Barbone. Arrestata nel 1980 assieme ai cinque esecutori materiali dell’omicidio, fu assolta per insufficienza di prove a suo carico. Eppure era nella sua casa di via Solferino 36 che il gruppo si riuniva, appena quattro portoni più in là dalla sede del Corriere dove lavorava Tobagi. Si scopre anche che la ragazza, studentessa di Storia Moderna alla Statale di Milano – la stessa dove Tobagi era stato ricercatore e poi docente – aveva partecipato, nel 1978, al tentativo di sequestro fallito di Tobagi. Si è detto, ma non c’è mai stata conferma, che la libertà della ragazza, fuggita in Brasile una volta assolta, possa essere stata uno dei premi per la collaborazione di Barbone.
Una morte annunciata? – Non solo. Secondo molti quella di Tobagi era una morte evitabile, perché annunciata. Lui stesso scriveva sulle pagine dei suoi diari privati di avere paura e di non sentirsi sicuro, come si legge nel libro del 2009 Come mi batte forte il tuo cuore della figlia Benedetta. Il dubbio che avesse ragione rimane ancora oggi. Gli investigatori avrebbero conosciuto addirittura i nomi di chi stava progettando l’omicidio. Se ne parlò per la prima volta nel 1983, proprio quando stava iniziando il processo a carico dei cinque del commando. È il segretario del Psi Bettino Craxi, all’epoca presidente del Consiglio, che fa pubblicare al direttore dell’Avanti! Ugo Intini, allora sua portavoce, il contenuto di un documento di cui presto si perderanno le tracce: un’informativa dei Carabinieri datata 1979 che parlava del progetto di uccidere Tobagi nella zona di via Solari, vicino alla sua abitazione. Per quell’articolo Intini, altri giornalisti della testata e alcuni parlamentari del Partito Socialista Italiano furono condannati nel 1985. Fu lo stesso Spataro a sporgere querela contro di loro per diffamazione a mezzo stampa. Il Consiglio Superiore della Magistratura tentò di organizzare una seduta straordinaria per discutere delle ingerenze di Craxi e dei socialisti nell’operato della magistratura di Milano. Il tentativo fu però bloccato dall’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, in qualità di presidente del CSM.
I dubbi del giudice – Per anni poi, più nulla. È il magistrato di Milano Guido Salvini a riaprire la questione nel 2018. Secondo Salvini è sospetto che, tra le decine di aderenti e le migliaia di simpatizzanti delle Brigate Rosse, la Procura di Milano scelga proprio i telefoni di Barbone, Morandini e Rosenzweig quando, l’11 giugno 1980, decide di avviare alcune intercettazioni. A così breve distanza dall’omicidio. La pista che portò gli inquirenti a seguire la traccia giusta sarebbe stata un manoscritto trovato dal Nucleo Antiterrorismo milanese in una sede delle Formazioni Comuniste Combattenti, una delle tante organizzazioni terroristiche dell’epoca poco dopo l’omicidio di Tobagi. Manoscritto di pugno di Barbone. Impossibile, secondo Salvini, che si trovi a colpo sicuro, al primo tentativo, tra centinaia di sospetti proprio quella mano. Doveva esserci qualcosa che, a omicidio compiuto, mise gli inquirenti subito nella giusta direzione. L’informativa del 1979, appunto. Redatta dal sottufficiale dell’Arma conosciuto come “il brigadiere Ciondolo”, che era riuscito a infiltrarsi tra i terroristi attraverso l’affiliato Rocco Ricciardi – detto Il Postino -, non è mai stata citata dalla Procura come una delle prove su cui si sono basate le indagini. Anzi, nel processo di primo grado era stata liquidata come “poco attendibile”.