A una settimana dal primo voto, previsto il 24 gennaio, il nome del prossimo presidente della Repubblica è tutto meno che sicuro. Lo spettro delle elezioni, una riforma elettorale improrogabile dopo il taglio dei parlamentari dell’autunno 2020, i soldi del Pnrr da gestire. Un centrodestra che vuole, deve apparire unito. Il Movimento 5 stelle alle prese con problemi di rapporti di forza interni, il Partito democratico che ha la necessità di intestarsi il nome. Sullo sfondo, il commissariamento della politica a cui tutti, sembra, vogliono porre fine il prima possibile. La scelta del nuovo capo dello Stato implica variabili che ambizioni personali, timori, sgambetti, rancori e paure rendono difficili da controllare.

Lui no, lui per forza – A oggi il nome che ha accentrato su di sé il maggiore interesse è quello di Silvio Berlusconi. Divisivo, ormai quasi per antonomasia. Dopo che i capi dei partiti della coalizione di centrodestra, riuniti nel vertice di Villa Grande, residenza romana del Cavaliere, «hanno convenuto che sia la figura adatta a ricoprire in questo frangente l’Alta Carica», chiedendo dunque di sciogliere la «riserva fin qui convenuta», sembra ormai ufficiale: sarà il nome che i leader dei partiti di destra chiederanno ai loro parlamentari di votare. «In Aula noi leghisti saremo in 210 e se Berlusconi deciderà di scendere in campo, lo voteremo in 210. Saremo il partito più compatto e granitico», ha affermato il segretario della Lega Matteo Salvini. Destinatario, insieme a Dell’Utri e Confalonieri, di una lettera da parte del suocero, madre della fidanzata Francesca, ex senatore e fido consigliere del Cavaliere, Denis Verdini: Cciò che non si può pretendere», dice, è che il segretario leghista «rinunci al tentativo di esercitare il ruolo di kingmaker. Gli si può chiedere lealtà, ma non fedeltà assoluta».
Dietro il velo di Maya, sempre più rarefatto, dell’appoggio al fondatore di Forza Italia, che ha minacciato anche di ritirare i suoi ministri in caso di trasloco di Draghi al Quirinale, il centrodestra teme un revival al contrario di quanto successo a Romano Prodi nel 2013, affossato proprio dagli azzurri. Ed è per questo che Salvini, che ha paura di non avere i numeri necessari, dialoga fitto con il segretario del Pd Enrico Letta.

Basta che non sia di destra – Il centrosinistra, dal canto suo, non ha ancora espresso un nome. «Non hanno una candidatura all’altezza, dovrebbero riuscire a influenzare il dibattito prima e poi trovare un nome forte, non possono dire “no” a Draghi senza una motivazione», aveva detto a Sestina lo scorso maggio Gianfranco Pasquino. Dopo più di sette mesi, girandole di nomi, e la scomparsa di David Sassoli, la situazione non è cambiata. Il “candidato” prediletto dal Pd – il M5s invoca ancora di Mattarella bis, e parla genericamente della necessità di avere una donna – sembra essere Mario Draghi, pronto a ricoprire il ruolo di «nonno delle istituzioni». Letta ha interesse nell’intestarsi la sua elezione, per avere un interlocutore e non rischiare di rimanere fuori dai giochi delle nomine di un eventuale prossimo esecutivo. Motivo per cui ha aperto alla proposta di Matteo Salvini, ingolosito dalla prospettiva di giocarsi la partita su un livello più alto dell’alleata Giorgia Meloni, di un governo dei leader della maggioranza, «nessuno escluso», per portare avanti le riforme necessarie del Pnrr e arrivare alla scadenza naturale della legislatura.

Gli altri partiti – Un terzo “partito”, dopo quello di Draghi, trasversale, e di Berlusconi, di parte, è rappresentato da Giuliano Amato, curriculum adatto – quattro volte ministro e due Presidente del Consiglio – non nuovo alla partita del Quirinale dopo le finali perse nel 2006 contro Napolitano e nel 2015, quando Renzi gli preferì Mattarella. Il consenso di cui godrebbe, e di cui, stando alle indiscrezioni, si sarebbe accertato, è molto largo: da Giuseppe Conte a D’Alema, passando per il Partito democratico fino ad arrivare a Gianni Letta e una parte di azzurri. Il problema, rivela una fonte leghista all’Espresso, è che per Matteo Salvini, per ragioni non chiare, il suo nome è fuori discussione.
Altri nomi che si sono fatti in queste settimane sono quelli di Pier Ferdinando Casini, Dario Franceschini e Marta Cartabia. I primi due moderati, nel mondo della politica da molti anni, capaci di attrarre consensi nello schieramento opposto attraverso conoscenze e rapporti trasversali. Ma pur sempre di parte. Così come la Presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, che non nasconde le sue ambizioni, o Letizia Moratti. Dell’attuale ministra della Giustizia ed ex Presidente della Corte Costituzionale Cartabia, si è parlato invece sia nel ruolo di Presidente del Consiglio, in caso di elezione di Draghi, sia di inquilina, prima donna, al colle. In particolare Carlo Calenda e Matteo Renzi, che oggi, intervistato dal Corriere si è detto favorevole a un eventuale accordo Letta-Salvini, da tempo ne tessono le lodi: «Non perché donna, ma perché competente e moderata». Già nel 2019, scriveva sul suo profilo Facebook il fondatore di Italia Viva: «L’elezione di Marta Cartabia alla Presidenza della Corte Costituzionale è un segnale bellissimo. Una donna, giovane, di grandissime qualità. Complimenti Presidente».

Scommettiamoci su – L’incertezza sull’esito del prossimo Presidente della Repubblica non appassiona solo giornalisti, esperti e politici italiani: il sito di scommesse Ladbrokes ha quotato i vari candidati. Saldamente in testa c’è Mario Draghi, a 1.67, seguito a distanza Marta Cartabia (7.00). A pari punti a 8.00 Silvio Berlusconi e, nonostante non sappia più come dire che non è disposto al bis, Sergio Mattarella. Maria Elisabetta Casellati a 9.00 e Pier Ferdinando Casini a 11. Staccati Paolo Gentiloni (34) e Giuliano Amato (51). Tra una settimana si gioca.