Evo Morales è un ricercato. Le accuse per l’ex presidente della Bolivia, che dall’Argentina denuncia trame golpiste statunitensi, sono di sedizione e terrorismo. Destituito dal tribunale supremo dopo aver corso per un (proibito) quarto mandato presidenziale, Morales aveva riparato dal capo di Stato messicano Manuel López Obrador prima di approdare nell’Argentina neoperonista di Alberto Fernandez. Il suo posto, a La Paz, era stato affidato alla senatrice di destra Jeanine Áñez. Le proteste che hanno scosso il Paese lo scorso ottobre avevano contribuito ad alzare la tensione in Sudamerica, aggiungendosi a quelle cilene, argentine, venezuelane, ecuadoregne (ma anche paraguayane, peruviane e brasiliane). Paesi con storie diverse e un unico sentire: stanchezza. Per la repressione, la povertà prolungata e le forti differenziazioni sulla base di censo ed etnia: gli anni d’oro dei primi Duemila sembrano scomparsi e i problemi sono tutti strutturali.

Cile – Almeno 23 le persone morte nelle proteste di Santiago del Cile, oltre alle 2300 ferite e le 7000 arrestate. L’aumento del biglietto dei mezzi pubblici del 3% non è stato che una miccia per le mobilitazioni popolari: esclusione politica, ineguaglianze e crescita del costo della vita hanno fatto da base per uno scontento che smentisce l’immagine di un Paese che sembrava il più florido del Sudamerica. Il presidente di centrodestra Sebastián Piñera era stato costretto, dopo aver bollato i manifestanti come attentatori all’ordine pubblico, a dichiarare lo stato d’emergenza. Un milione di persone sono scese in piazza, invadendo le metropolitane e i profili instagram di tutto il mondo, per catalizzare l’attenzione sulle ingiustizie contro la popolazione nativa e le politiche di austerità forzata. La reazione non è mancata da parte dell’esercito, cui non sono state poste restrizioni di alcun tipo nel reprimere proteste e saccheggi. Anche se fortemente calate, le manifestazioni non si sono esaurite, e il 16 dicembre scorso oltre due milioni di persone hanno partecipato a un referendum non vincolante sul da farsi: la maggior parte dei votanti vorrebbe una nuova Costituzione.

Argentina – Una prolungata crisi finanziaria, che aveva raggiunto l’apice con radicali misure anti-bancarotta dell’allora presidente Mauricio Macri (con limiti sull’acquisto di moneta straniera e il divieto di conversione libera del peso), aveva portato in piazza migliaia di persone lo scorso settembre. Anche a Buenos Aires inflazione, povertà e iniquità (con relativa crescita della criminalità) hanno spinto oltre il limite di tolleranza la popolazione: il governo argentino aveva già chiesto un prestito di 57 miliardi al Fondo Monetario internazionale meno di un anno prima. Poche sorprese, allora, per l’elezione del peronista Alberto Fernandez e il suo Frente de Todos con quasi il 50% dei voti: il motto è basta sofferenze per gli argentini. Ora il nemico da battere è un tasso di povertà cresciuto di 35 punti e un’inflazione che sfiora il 40%. Al suo fianco Cristina Fernández de Kirchner, già presidente argentina e ora vicepresidente: appartenente alla corrente che da suo marito e da lei prende il nome, il “Kirchnerismo“, connotata da nazionalizzazioni, dirigismo e operazioni assistenziali per contrastare la povertà, Cristina si è riavvicinata al peronismo ortodosso anche grazie a un intervento riappacificatore di Papa Bergoglio in persona (definito «determinante» dal Financial Times lo scorso 17 agosto).

Ecuador – Forte lo scontento popolare anche a Quito: il casus belli è stata la decisione del presidente Lenín Moreno di revocare i sussidi per il carburante per risparmiare 1,3 miliardi di dollari. La misura di austerità era stata concordata con il Fondo Monetario Internazionale per ottenere un credito di oltre 4 miliardi per inserire liquidità in un Paese stanco. Scontri anche violenti con la polizia, centinaia di arresti e la dichiarazione dello stato di emergenza (con tanto di fuga del leader socialista di Alianza País): a ottobre anche in Ecuador i cittadini si sono visti imporre un coprifuoco.

Venezuela – Scenari da guerra civile irrisolta a Carcas, dove sono ancora in carica due diversi presidenti: Juan GuaidóNicolas Maduro. Dalla sfida del 35enne presidente del parlamento Guaidó al delfino di Chavez  è passato quasi un anno, durante il quale 4 milioni di persone sono fuggite all’estero, si sono accumulati debiti per milioni e centinaia di prigionieri politici. Il Paese più ricco di petrolio del subcontinente aveva diviso il mondo, e lo fa tutt’ora, con lo schieramento russo e cinese in difesa dell’ordine costituito (con tanto di prestiti per 66 miliardi e contingenti armati) e l’intervento pubblico americano in favore del nuovo arrivato.