Marco Prato si scatta una fotografia allo specchio. Fonte Ansa

Un sacchetto di plastica in testa. Poi il buio. È stato ritrovato così Marco Prato, martedì 20 giugno, dalle guardie del carcere di Velletri durante il giro di controllo della mattina. Su di lui pendeva un’accusa grave, l’uccisione del giovane Luca Varani, il ragazzo di 23 anni morto durante un party a base di droghe e alcol, dopo essere stato seviziato e violentato dallo stesso Marco Prato e da Manuel Foffo, già condannato a 30 anni di reclusione.

Secondo l’autopsia, a provocare la morte di Varani non era stata la coltellata al cuore sferrata da Foffo, ma proprio le sevizie subite nelle ore precedenti per mano di Marco Prato. Un peso troppo grande da sopportare.

La famiglia – Una vita apparentemente agiata quella di Prato. Ragazzo di buona famiglia, con genitori presenti e che lo hanno sostenuto anche dopo il delitto. Aveva studiato in un liceo della Roma “bene”. Forse da lì nascono i primi problemi: lui stesso aveva raccontato di essere stato bullizzato e deriso dai compagni a causa della sua omosessualità.

Ci teneva molto al suo fisico. Era un frequentatore assiduo di palestre e in poco tempo era diventato uno dei ragazzi più popolari della capitale. Le amicizie, tante, anche quelle più estreme. Si vocifera avesse rapporti pure con volti noti dello spettacolo.

Gli eccessi – Poi l’incontro con Manuel Foffo, l’amico ricco e festaiolo di cui lui si è più volte detto succube, e i primi festini senza regole. La ricerca del piacere e del brivido. A tutti i costi. Forse la rivincita dopo un’adolescenza tormentata nelle relazioni con i coetanei. È qui che Marco Prato inizia a perdersi. Un figlio che anche i genitori faticano a riconoscere, soprattutto quando, per un gioco perverso, si rende complice insieme all’amico delle torture che porteranno alla morte di Luca Varani. Un decesso lento e doloroso, durato alcune ore in cui Varani è stato picchiato, colpito a martellate e accoltellato. Più volte.

Ormai di quel ragazzo educato e di buona famiglia è rimasto poco. «Sul mio telefonino – rivelava al padre – ci sono foto di persone nude, anche importanti, come l’attore De Sica. Una volta che queste foto usciranno saranno una bomba: queste persone tenteranno di fare muro insieme con me perché altrimenti andranno giù anche loro», diceva Prato che poi chiedeva l’aiuto degli amici di papà. «La situazione in carcere è dura. Non ci sono termosifoni e le finestre sono medioevali. Non ci sono attività, niente da fare… Io vorrei frequentare un corso di buddismo, ho bisogno di relax, per me è importante l’orientamento del pensiero… Papà aiutami, contatta i tuoi amici. Il deputato, il senatore, quelli che conosci tu…». E il padre rispondeva:«Ora c’è il problema che sono tutti impegnati in campagna elettorale, per fortuna finisce tra una settimana».

Un cambiamento che anche i genitori non si sono riusciti a spiegare, ma che doveva essere compreso. Scriveva il padre di Prato sul suo blog poco dopo il delitto: «Diamo il massimo ma non sempre riusciamo nel nostro intento. Ma anche quando il fico non dà frutti non va tagliato, ma annaffiato con cura».

Il messaggio – La volontà di suicidarsi c’era stata ben prima del carcere. Poche ore prima dell’arresto nella primavera scorsa, Marco Prato si era rifugiato in un hotel della zona dove aveva lasciato alcuni messaggi di addio ai genitori. Poi arrestato e portato nel carcere di Regina Coeli, Prato era a Velletri solo da alcuni mesi. Nella cella è stato trovato un biglietto del ragazzo:«Non ce la faccio a reggere l’assedio mediatico che ruota attorno a questa vicenda. Io sono innocente», ha scritto Marco. «Quando lo direte a mio padre fate in modo che ci sia un medico».