La bandiera nera dell’Isis è tornata a sventolare nella Siria meridionale. Nonostante la crisi del Califfato, i miliziani jihadisti, secondo fonti militari, hanno riconquistato alcune zone da cui erano stati cacciati dalle forze governative nei mesi scorsi. La notizia è arrivata il giorno dopo le dichiarazioni su Twitter di Donald Trump, che aveva annunciato la vittoria completa sullo Stato islamico e il prossimo ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria.
La resistenza Isis – I jihadisti non si arrendono e nella mattina del 18 febbraio fonti di stanza a Suwayda – 150 chilometri da Damasco – riferiscono che le truppe del Califfato hanno riconquistato alcune zone del sud-est della Siria. Nel deserto a est di Suwayda – tra Khirbat Husn (Rovine della fortezza) e Magharat Namla (Caverna della formica) – i miliziani locali hanno sfruttato l’incapacità delle forze governative siriane di mantenere il controllo del territorio e hanno lanciato la controffensiva. La guerra al Califfato ha da tempo assunto le caratteristiche di una guerriglia a bassa intensità, attraverso cui i miliziani jihadisti riescono a riconquistare zone precedentemente cadute in mano ai soldati statunitensi, curdi o siriani. Per contrastarli, sono presenti sul campo 2.000 regolari statunitensi – come riporta il Military Times – inquadrati nell’operazione Inherent Resolve. Un centinaio di mezzi militari sono entrati nella mattina del 18 febbraio nella Siria orientale, in risposta a un’altra controffensiva dell’Isis.
Le reazioni Usa – Proprio due giorni fa, il 16 febbraio, il Califfato sembrava sull’orlo della caduta definitiva, con le truppe curdo-siriane che prendevano possesso dell’ultima roccaforte dell’Isis, Baghuz, sul confine orientale tra Siria e Iraq. Nonostante i combattimenti ancora in corso, il vicepresidente americano Mike Pence già sabato annunciava l’estinzione del Califfato in Siria.
Dopo nemmeno 24 ore, il presidente Trump ha subito annunciato a sua volta «la vittoria al 100% sul Califfato in Siria», spostando la polemica verso l’Europa, sulla necessità che si prenda in carico i propri foreign fighter presi prigionieri dalle forze democratiche siriane e di cui gli Stati Uniti, ha detto con chiarezza il comandante in capo, non vogliono occuparsi. L’annuncio di un prossimo ritiro delle truppe dal teatro di guerra non è nuovo al presidente americano, che già il 19 dicembre 2018 scriveva – sempre su Twitter – che l’Isis in Siria era stato sconfitto, «unica ragione per la presenza delle truppe statunitensi sotto la presidenza Trump». Come oggi, anche in quell’occasione l’esternazione avventata di The Donald aveva scatenato polemiche nell’opinione pubblica americana e internazionale.
….The U.S. does not want to watch as these ISIS fighters permeate Europe, which is where they are expected to go. We do so much, and spend so much – Time for others to step up and do the job that they are so capable of doing. We are pulling back after 100% Caliphate victory!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) February 17, 2019
La forza reale dell’Isis – Se Trump dichiara che il Califfato in Siria è stato sconfitto, la realtà dei fatti è diversa. In primo luogo, l’entità delle forze ancora in campo: le stesse fonti ufficiali della Difesa degli Stati Uniti d’America stimano la presenza delle truppe dell’Isis tra le 15.000 (rapporto operazione Inherent Resolve, luglio 2018) e le 30.000 unità (dichiarazioni del capo di Stato maggiore Joseph Dunford, ottobre 2018).
In secondo luogo, quella contro l’Isis non è inquadrabile come una guerra tradizionale, dove la caduta dell’ultima roccaforte jihadista significa necessariamente la sconfitta del nemico. L’Isis ha subito dal luglio 2015 una dura battuta d’arresto nella sua espansione e ha iniziato il suo arretramento. Ma se oggi si è arroccato nelle sue basi nell’estremità orientale della Siria – al confine con l’Iraq e la regione del Kurdistan iracheno – l’avanzata dei miliziani sul fronte meridionale, che fino a ieri sembrava chiuso, ha dimostrato che la guerra al Califfato nero potrebbe essere tutt’altro che conclusa.